Sono le ore 17.15 del 14 aprile 1945. La campana del municipio comincia a suonare a festa

Sono le ore 17.15 del 14 aprile 1945. La campana del municipio comincia a suonare a festa

9 aprile 1945. E’ il giorno in cui le armate alleate sferrano l’offensiva di primavera, preceduta da un formidabile bombardamento di artiglieria e aereo. Secondo il piano di battaglia spetta al 2° Corpo d’armata polacco, aggregato all’8ª Armata britannica, il compito di portare l’attacco direttamente verso Bologna.

I suoi reparti, appena riorganizzati e tornati in prima linea dopo un periodo di riposo, sono schierati su ambedue i versanti della via Emilia, mentre l’ala sinistra è coperta dalla Brigata ebraica e dai Gruppi di combattimento «Friuli» e «Folgore». Di fronte a loro la difesa tedesca è disposta su tre linee successive, corrispondenti a tre corsi d’acqua: Senio, Santerno e Sillaro.

In questo settore del fronte l’offensiva alleata parte bene. La linea del Senio viene sfondata già il primo giorno grazie all’impiego dei carri lancia-fiamme. Ma i tedeschi capiscono subito che si tratta di un’azione di vasta portata e per evitare l’annientamento decidono di arretrare fin sul Santerno. E per rallentare l’avanzata delle truppe alleate lasciano sul posto retroguardie, che si trincerano negli abitati di Solarolo, Cotignola, Bagnara di Romagna, Villa San Martino e Mordano, utilizzati come capisaldi.

L’avanzata alleata rallenta, malgrado il massiccio impiego dell’aviazione, ma non si ferma. La sera dell’11 aprile reparti polacchi raggiungono la riva del Santerno e iniziano l’attacco. Ma il fuoco tedesco li ferma. Castel Bolognese viene «bonificata» il successivo 12 aprile e lo stesso giorno viene superato il Santerno.

Le avanguardie della 3ª Divisione carpatica arrivano alle porte di Imola il giorno 14, mentre i Gruppi di combattimento italiani stanno scendendo verso la città dalla valle del Santerno assieme al Battaglione partigiano «Sirio», comandato da Edmondo «Libero» Golinelli (con il grado di colonnello, riconosciuto dai britannici). Ma giunti già in vista della periferia di Imola, folgorini e partigiani verranno però fermati da ordini superiori.

Intanto le Squadre di azione patriottica (Sap) e i Gruppi armati partigiani (Gap) si sono mossi già da venerdì 13 aprile, portando le armi nei luoghi prestabiliti, tra cui biblioteca e Cooperativa meccanici. Le forze di liberazione imolesi, però, falcidiate dai duri colpi subiti durante l’inverno, sono molto indebolite.

In città possono contare su circa 120 sappisti e una trentina di gappisti, armati di 70 moschetti, 10 mitra, 100 rivoltelle e 300 bombe a mano, queste ultime «di poca efficacia». Uomini e armi che possono bastare per l’insurrezione qualora gli alleati giungano in città in tempi molto rapidi. Diversamente, i partigiani non potrebbero reggere per più di un giorno.

La popolazione è rintanata nei rifugi o nelle cantine e le vie della città sono deserte. La battaglia s’avvicina. In lontananza si odono i boati dei cannoni, gli scoppi delle granate, l’incessante gracidio delle mitragliatrici.

Dall’inizio della guerra Imola ha già subito numerosi bombardamenti aerei, con molte distruzioni e molte vittime. Lo stesso potrebbe ripetersi ora, come sta accadendo ad ogni abitato, grande o piccolo, rasi al suolo uno dopo l’altro coi bombardamenti, da terra e dal cielo, man mano che gli eserciti alleati avanzano.

Imola però risulta più fortunata. Il comando alleato aveva già disposto un ulteriore bombardamento aereo della città per la mattina del 12, allo scopo di distruggere le sedi dei comandi tedeschi. Ma informato dai partigiani dell’avvenuto inizio della ritirata delle forze germaniche, tale incursione viene sospesa.

La ritirata delle forze germaniche sta comunque lasciando dietro di sé una tragica scia di edifici e infrastrutture fatti esplodere, di ruberie e violenze sui civili, specie nella campagna circostante. E per far cessare tutto ciò, col suo carico di dolore, i comandanti partigiani Natale Tampieri, «Bianco», e Dante Pelliconi, «Ragno», riuniti fra i muri del Carmine col presidente del Cln, Ezio Serantoni, il popolare «Mezanòt», decidono di rompere gli indugi. La decisione tanto attesa viene presa: insurrezione!

Anche perché tedeschi tengono ancora le prime alture collinari e una loro compagnia si è opposta per l’intera giornata alle avanguardie polacche attorno alla casa del podere Bicocca, nei pressi della via Selice. Ma eliminando la loro retroguardia nel centro urbano, i tedeschi sarebbero costretti ad abbandonare anche quelle posizioni, a quel punto divenute indifendibili.

Nelle prime ore della mattina di sabato 14 aprile i gruppi dei partigiani sparpagliati in città ricevono, tramite staffette, l’ordine di armarsi e cominciare ad operare dalle 13. Giunta l’ora – racconterà Alfiero Salieri, nome di battaglia «Fiero», caposquadra Sap – «iniziammo il rastrellamento dei pochi tedeschi rimasti, che ben volentieri si consegnarono e che vennero inviati alla caserma dei carabinieri». Tre soldati nemici vengono catturati presso le case Mitraglia, in via Selice, due in via Aldrovandi e ancora due in via Tozzoni.

La squadra di Ferruccio Montevecchi ha ricevuto l’ordine di occupare e poi presidiare la rocca sforzesca, usata come carcere e luogo di tortura dai nazifascisti. Luogo simbolo dell’oppressione. «Non sarebbe stato un compito facile, ma il pensiero di tornare a combattere dopo mesi d’inattività ci galvanizzò. Per raggiungere la fortezza passammo attraverso uno stabile di via Saragozza, munito di due ingressi. Quando sbucammo in viale Saffi scorgemmo dei paracadutisti che stavano dirigendosi verso la periferia. Sparammo, ma non li colpimmo. Alcuni di loro si misero a correre, altri si rifugiarono all’interno di casa Gardi. Attendemmo alcuni minuti al riparo dei tigli, poi una donna, da una finestra, ci avvertì che tre soldati si erano dileguati e che un quarto era nascosto in cantina. Lo catturammo subito: aveva la divisa sudicia e scucita, una barba di più giorni e tremava come una foglia. Poteva avere sì e no vent’anni, un ragazzo, come noi. Mentre “Pucci” (Lino Balbi) lo scortava al comando di battaglione, entrammo nella rocca, che trovammo deserta, popolata soltanto dai fantasmi di coloro che, ancora poche ore prima, avevano sofferto inenarrabili torture da parte degli sgherri fascisti».

Ed al riguardo, nei giorni successivi si scoprirà l’ultimo crimine commesso dai brigatisti neri prima della loro fuga: l’eccidio di 16 prigionieri prelevati dalla rocca, portati nello stabilimento ortofrutticolo «Becca» di via Vittorio Veneto, semidistrutto dalle bombe, lì ancora seviziati, uccisi con un colpo alla nuca e i corpi gettati entro un pozzo artesiano, poi minato e fatto saltare per nascondere le tracce dell’orribile misfatto.

Ma non tutti i tedeschi cedono le armi senza combattere. Ci sono scontri isolati. Vengono uccisi due soldati in via Vittorio Veneto e uno in via Pambera. Ma sulla via Emilia, presso la piazzetta dei Servi, muore il capo squadra gappista Anacleto Cavina, scontrandosi coi genieri tedeschi che poco prima avevano fatto saltare il ponte sul Santerno. «Noi cercammo di fare il possibile per evitare che fossero distrutti i ponti sul Santerno, ma non ce la facemmo e i polacchi poi ci rimproverarono», racconterà il futuro sindaco di Imola Amedeo Ruggi, «Meo», membro del Comando piazza del Cln, già partigiano della 36ª Brigata Garibaldi ed entrato a far parte della Brigata Sap «Santerno-Imola».

Verso le 14 una pattuglia di soldati polacchi guidata da un sergente arriva a port’Appia, il cui accesso è bloccato da una profonda trincea e da pali e reticolati. A guidare la pattuglia già da Castel Bolognese, dove s’era trasferito per sfuggire ai fascisti, è il partigiano imolese Marino Sangiorgi, «Ciacarì». «Giunti al viale della stazione – racconterà – io volli proseguire verso port’Appia. Attraversai il trincerone alla porta e giunsi quasi fino all’incrocio di via Callegherie, dove la folla era già uscita urlando e festosa».

Anche Ruggi è in perlustrazione da quelle parti. «In via Appia – racconterà – incontrai un ufficiale polacco e un partigiano. Il polacco mi disse che aveva l’ordine di andare sul campanile di San Cassiano e di lassù sparare una lunga raffica, che voleva dire che la città era nostra. Così il polacco, il partigiano ed io ci avviammo verso il campanile. Quando vi arrivammo fummo sorpresi da una scarica di granate che i tedeschi sparavano con un panzer dalla zona dei Cappuccini. Ci fermammo, anche perché fummo investiti dal pietrisco che cadeva dall’alto del muro colpito. Aspettammo un po’, poi attraversammo il piazzale ed entrammo nel campanile e salimmo. Dall’alto il polacco sparò alcune raffiche e la truppa cominciò ad avanzare».

Attorno le ore 16, infatti, pattuglie della 3ª Brigata della 5ª Divisione «Karpacka» erano arrivate alla periferia di Imola provenienti dalla Selice e dalla zona Campanella. Un gruppo di partigiani guidato da Antonio Ronchi, «Tanè» (già comandante di compagnia del Sap «Montano» e ora gappista della 7ª Gap), era andato loro incontro. «Andammo verso porta dei Servi, zona che conoscevo bene perché provengo da quelle parti. Soltanto qualcuno di noi era armato di rivoltella. E così arrivammo fino all’altezza del molino vecchio, dove la via Emilia era interrotta da un profondo fossato, penso fosse lo stesso canale dei Molini che in quel punto attraversa la strada, da reticolati e palizzate. Parlammo con altri imolesi di là del vallo e soldati polacchi, facendo capire, anche a gesti, che venissero avanti, che la città era già nostra, era già libera. I polacchi, dopo aver parlottato tra loro, si decisero: presero il telefono da campo e probabilmente chiesero ai loro superiori l’autorizzazione ad avanzare e cominciarono ad entrare. Io e i miei compagni eravamo davanti, loro seguivano i fila indiana a piedi. Così andammo fino alla porta e proseguimmo lungo la via Emilia fino in piazza. Dovevano essere poco oltre le cinque del pomeriggio».

Nel frattempo i partigiani, dopo avere preso possesso dei punti strategici della città (municipio, caserma dei carabinieri, commissariato di polizia, Ente comunale di assistenza), li presidiano contro eventuali attacchi e sciacallaggi. Piazza Maggiore è presidiata da un gruppo di sappisti guidati da Natale Tampieri, che, partiti dal Carmine, dove erano ospiti di don Giulio Minardi, vi sono giunti attorno alle 13. Sul vicino municipio è stata issata una bandiera bianca, per disposizione del Cln, per segnalare che la città è «aperta», cioè senza tedeschi.

«La nostra pattuglia – racconterà Tampieri – era piuttosto inquieta. Presidiavamo la piazza, ma al contempo ci tenevamo al corrente di tutto ciò che succedeva nelle vie che conducevano al centro. Eravamo molto guardinghi, aspettavamo con ansia che passassero gli ultimi scampoli di timori e di incertezze».

A rompere la tensione è l’arrivo di un ufficiale alleato dotato di radio ricetrasmittente ed accompagnato da tre militari, di cui due imbracciavano armi automatiche. Il gruppo era giunto in piazza Maggiore con un cingolato leggero. «Detti loro rassicurazioni, forse un po’ eccessive, che le ultime retroguardie tedesche avevano lasciato la città», racconterà Tampieri.

Ma ecco l’arrivo delle avanguardie entrate da porta dei Servi, affiancate dai partigiani di Tanè. Ad attenderli in piazza, oltre agli uomini di Tampieri, anche i componenti del Cln, riconoscibili per il bracciale bianco portato al braccio sinistro. «Il primo reparto e gli altri che seguivano a breve distanza non si fermarono, non sostarono in piazza, ma proseguirono la loro marcia verso porta Bologna. Li seguii con lo sguardo fino alla farmacia dell’Ospedale». La campana del municipio comincia a suonare a festa. Sono le ore 17.15 del 14 aprile 1945. Imola è finalmente libera.

NELLE FOTO: L'ARRIVO IN CITTA' DEI SOLDATI POLACCHI DEL II CORPO D'ARMATA,
ACCOLTI IN PIAZZA MAGGIORE DALLA POPOLAZIONE ESULTANTE.