L’Italia uscita dalla prima guerra mondiale era una nazione vittoriosa sul piano militare, ma alle prese con le tensioni dovute ad una gravissima crisi economica e sociale ed alla conseguente radicalizzazione della lotta politica, tra rivoluzioni annunciate, repressioni sanguinose e l’emergere di minacciosi movimenti armati. Questo il nefasto brodo colturale nel quale stava prendendo forma il progetto totalitario fascista. Progetto che diverrà poi il modello preso a riferimento da tutti i nazionalismi radicali che si moltiplicheranno nell’Europa degli anni Venti e Trenta.
Per divenire il riferimento di forze sociali e interessi capaci di farlo arrivare al potere, il progetto fascista si basava su una doppia strategia: da un lato il rassicurante doppiopetto parlamentare; dall’altro, la rozza e intimidatoria violenza squadrista. Ma se l’aspetto presentabile del fascismo servì a illudere sulla volontà di ristabilire un mondo tradizionale tranquillizzante, la vera forza del movimento fascista furono le squadre d’azione che misero a ferro e fuoco il mondo socialista e sindacale, nelle campagne come nelle città.
Fu la violenza di carattere militare, tollerata e finanche sostenuta dalle autorità pubbliche, a costituire la vera anima del fascismo. Così il 28 ottobre 1922 migliaia di camicie nere marciarono, praticamente indisturbate, su Roma e Benito Mussolini, il successivo 31 ottobre, ottenne dal re Vittorio Emanuele III l’incarico di formare un nuovo Governo, così concludendo ignominiosamente la parabola dello Stato liberale e aprendo formalmente il ventennio fascista.
Divenuto capo del Governo, dopo aver modificato la legge elettorale in senso fortemente maggioritario, Mussolini indisse elezioni nel 1924, nelle quali, dopo una campagna elettorale segnata da violenze, ottenne la maggioranza assoluta. Il 30 maggio il deputato socialista Giacomo Matteotti, durante una seduta alla Camera, denunciò le violenze e i brogli elettorali; il 10 giugno fu rapito e ucciso.
Assassinio di cui Mussolini, col discorso pronunciato alla Camera il 3 gennaio 1925, si assunse «la responsabilità politica, morale e storica». Discorso che verrà ritenuto l’atto costitutivo del fascismo come regime autoritario. E tra il 1925 e il 1926 comincerà la trasformazione in dittatura dell’assetto politico italiano.
Durante la dittatura mussoliniana, dalla presa del potere alla sua caduta, il tributo di sangue, di dolore, di sacrifici pagato dagli antifascisti sarà altissimo. Ma chi sono stati i protagonisti di questa grande ed eroica epopea e cosa si sa di loro? Chi ricorda i loro nomi? E, al di là dei nomi, chi erano e cosa facevano nella vita civile? Quella vita civile che molti furono costretti ad abbandonare per scontare lunghi periodi di carcere o di confino, durante la dittatura, e che molti di più lasciarono per venti durissimi mesi per impugnare le armi con le quali combatterono e sconfissero gli invasori tedeschi e i fascisti repubblichini collaborazionisti.
Lo scorso sabato 15 giugno, nella frazione imolese di San Prospero, si è svolta una commovente cerimonia per ricordare quattro vittime della ferocia squadrista nera. Come l’anarchico ventunenne Ugo Masrati, tra i primi a perdere. Bracciante agricolo, il 13 luglio 1921 venne sorpreso mentre, assieme ad altri lavoratori, era intento alla trebbiatura del grano.
In quel periodo nelle campagne di Bologna e della Romagna era in corso un’offensiva squadrista contro tutte quelle aziende che impiegavano nei lavori agricoli macchine delle «cooperative rosse». Da Imola arrivò un camion carico di fascisti scalmanati. Ci fu un fuggi fuggi. Le camicie nere spararono e Masrati cadde colpito a morte. Primo martire, ma che purtroppo non resterà l’unico.
Il bracciante comunista e sindacalista Giuseppe Casadio Gaddoni, persona stimata e laboriosa, verrà assalito vigliaccamente dai picchiatori fascisti la sera dell’8 gennaio 1923 mentre, assieme al più piccolo dei suoi sette figli, stava rincasando. Favorito dal buio, un fascista colpì Gaddoni da dietro con una bastonata, tramortendolo, poi un complice si avvicinò al corpo esanime e gli sparò. Giuseppe morì tra le braccia del figlio Gino, che all’epoca aveva soli 16 anni.
E poi il birocciaio Natale Bolognesi, antifascista di Massa Lombarda. Di alta statura e di spalle larghe, era dotato di una forza straordinaria. E per questo particolarmente temuto dai pavidi picchiatori fascisti. Condannato più volte al carcere e al confino, dopo l’8 settembre 1943 era riuscito a fuggire e aveva cercato rifugio nella vicina San Prospero, dove aveva trovato lavoro come bracciante in un podere della chiesa parrocchiale, dormendo in una capanna di canne sulla riva del fiume Santerno. Ma sua moglie, che gli portava vestiti puliti e cibarie, venne pedinata e così il rifugio fu scoperto. Il 17 agosto 1944 i brigatisti neri di Massa Lombarda arrivarono in forze nella frazione imolese, circondarono il luogo e iniziarono a sparare all’impazzata, uccidendolo e ferendo la moglie.
Oltre ai tre nomi scolpiti sulla lapide affissa sulla parete esterna dell’ex Casa del popolo della piccola frazione imolese, oggi centro sociale, ne è stato ricordato un quarto: quello di Rino Geminiani. Mezzadro, di famiglia antifascista, renitente alla leva repubblichina, nella notte tra il 15 ed il 16 settembre 1944 era stato prelevato dai nazifascisti dalla propria abitazione, vicino alla borgata Chiavica. Al mattino il corpo privo di vita e straziato del giovane Rino (con entrambe le braccia spezzate e crivellato di colpi alla schiena) verrà poi rinvenuto nel fosso che corre accanto alla strada, ad alcune centinaia di metri da casa e non lontano da San Prospero.
«Ricordare queste quattro vittime – ha tenuto a rimarcare il vicesindaco Fabrizio Castellari – è fare memoria delle tante, troppe violenze che la popolazione civile dovette subire durante il ventennio fascista. La rivolta civile e la lotta partigiana hanno offerto insieme un contributo fondamentale per sconfiggere il fascismo. Questi quattro cittadini trucidati, solo perché antifascisti, ne sono un esempio. Il sacrificio di queste persone non va dimenticato e rinnovarne la memoria non è un rito, ma è molto di più: è un gesto che parla al presente ma anche al futuro, alle nuove generazioni, affinché l’antifascismo e la Resistenza continuino ad essere patrimonio di tutti i cittadini, come lo sono la libertà e la democrazia».