«Mi prospetto la situazione di tanti buoni che lottano con ristrettezze e dolori che saranno sempre sconosciuti. Vedo tanti miei cari in casacca da galeotti, anime e cuori nobili che non hanno esitato tra il sacrificio dell’esistenza e la necessità d’agire, vedo i nostri, le isole, i reclusori, i sanatori, le case ove manca tutto, ed ove la tubercolosi si inocula nella denutrizione quotidiana (…). Temprati come siamo nella lotta possiamo guardare con sicurezza l’incerto domani. Possiamo lottare e morire». A scrivere questa accorata lettera, inviata all’anarchica Elena Melli l’8 gennaio 1933, è l’imolese Attilio Bulzamini, che dopo una vita spesa per l’ideale dell’anarchismo, fatta appunto di ristrettezze e dolori, morirà l’1 giugno 1938, a soli 48 anni, nell’ospedale barcellonese Florida, dov’era stato ricoverato per aver contratto la febbre tifoidea al fronte durante la guerra civile spagnola.
Attilio Bulzamini nasce a Imola l’11 novembre 1890 da Ercole e Agnese Zuffa. Ferroviere macchinista, poi operaio metalmeccanico, giunge precocemente all’anarchismo. Nel primo dopoguerra si trasferisce a Milano, entrando in contatto con il locale movimento. Nel 1920 è assiduo sostenitore e sottoscrittore di «Umanità nova» e notevole è il suo impegno nel movimento dell’occupazione delle fabbriche, durante il quale è ripetutamente segnalato dalla Questura per la «intensa propaganda rivoluzionaria».
Dopo l’attentato al circolo Kursaal Diana non fa mancare il suo aiuto agli anarchici incarcerati e riesce addirittura ad avere un colloquio in carcere con Ettore Aguggini, spacciandosi per il fratello. Grande amico di Errico Malatesta, col quale manterrà contatti epistolari fino alla morte, sarà sua la prima casa nella quale il vecchio anarchico, nel 1922, si recherà a pranzo dopo la scarcerazione.
Sottoposto alle persecutorie attenzioni del regime fascista, che lo sospetta di favorire l’espatrio clandestino dei ricercati, nel 1923 viene licenziato dalle ferrovie per motivi politici e poi brutalmente aggredito dagli squadristi neri. Fino al 1927 rimane nel capoluogo lombardo, lavorando come operaio alla Breda di Sesto San Giovanni. Nuovamente privato del lavoro per rappresaglia politica, in ottobre Bulzamini ripara clandestinamente in Svizzera, dapprima a Ginevra e poi a Zurigo, dove rimarrà fino all’agosto del 1936, lavorando come metalmeccanico.
Ma anche nell’esilio conduce una vita dura, segnata da difficoltà economiche, dalla salute minata dall’ulcera duodenale e dalle continue minacce di espulsione. In quegli anni l’industria metallurgica conosce una grave crisi nella Confederazione elvetica e Bulzamini dovrà sopportare lunghi periodi di disoccupazione, appena attenuati dal sostegno che trova in Carolina Bafarra, moglie affettuosa, che non gli farà mai mancare la sua amorevole solidarietà.
Malgrado le difficoltà, non vengono meno l’impegno e la dedizione all’ideale anarchico. Oltre a tenere strette relazioni con gli anarchici svizzeri e con il gruppo de «Il Risveglio», guidato da Luigi Bertoni, e a mantenersi in corrispondenza con Malatesta e la Melli, nel novembre del 1933, in rappresentanza degli anarchici italiani in Svizzera, partecipa a una riunione tenutasi a Puteaux (Seine) convocata allo scopo di creare una Federazione anarchica dei profughi italiani. Nel novembre dell’anno successivo è presente all’importante Convegno d’Intesa degli anarchici italiani emigrati in Europa, tenutosi nel sobborgo parigino di Sartrouville.
Allo scoppio della rivoluzione spagnola, nel 1936, Bulzamini è fra i primi volontari ad accorrere in Spagna e in agosto partecipa alla battaglia di monte Pelado («monte Calvo»), che vede il battesimo del fuoco per la sezione italiana della colonna «Francisco Ascaso», organizzata dal sindacato anarchico Cnt e dalla Fai. Suddivisi in una compagnia di fucilieri ed una di mitraglieri, prima della battaglia ricevono dalle autorità di Barcellona fucili Mauser, quattro mitragliatrici e 18 splendidi muli dei Pirenei. E come uniforme, la tuta.
Monte Pelado è un cucuzzolo senza alberi di scarso rilievo posto a lato della strada che attraversa l’Aragona fra Huesca ed Almudevar, due capisaldi nazionalisti che non capitoleranno mai per tutta la durata del conflitto nonostante parecchie offensive repubblicane. La colonna italiana occupa la posizione già il 23 agosto. I franchisti, sette volte più numerosi e dotati di mitragliatrici, autoblindo e cannoni, attaccano all’alba del 28 agosto sul fianco sinistro, il più sguarnito.
Ma i combattenti repubblicani riescono ad aggiustare il tiro sul nemico che avanza protetto da cumuli di paglia che coprono la visuale. Dopo ore di fuoco infernale, il nemico viene respinto con molte perdite. Cospicuo il bottino in fucili, munizioni, una mitragliatrice e un cannone, più alcuni prigionieri. Gli italiani lasciano sul terreno sette caduti e sette feriti.
La battaglia di monte Pelado, modesto episodio dal punto di vista militare, è però il primo scontro a fuoco che coinvolge un reparto di miliziani non spagnoli. Soprattutto, è il primo fatto d’armi degli antifascisti italiani nella lotta ventennale iniziata in patria con l’avvento della dittatura fascista e che finirà solo nove anni dopo, il 25 aprile 1945, con la liberazione dell’Italia. Uno scontro avvenuto ben prima dell’entrata in guerra degli eserciti alleati contro il nazifascismo e, quindi, un episodio anticipatore di quanto avverrà in Europa da lì a pochi anni, tanto che i cantastorie di Lione intoneranno una canzone dal titolo «Monte Pelado».
Tra i combattenti di monte Pelado c’è anche Camillo Berneri, l’anarchico più espulso d’Europa. Laureato in filosofia a Firenze con Gaetano Salvemini, è molto legato a Carlo Rosselli e ad Ernesto Rossi. Dopo aver peregrinato in tanti Paesi, era giunto in Spagna il 29 luglio 1936. Impegnato nella redazione del suo giornale «Guerra di classe, il suo epistolario mette in evidenza la statura di questo intellettuale che teneva relazioni, indifferentemente, con i grandi protagonisti della sinistra europea e con tanti umili attivisti libertari.
Ed è proprio su invito di Berneri che nel settembre di quell’anno Bulzamini entra a far parte del gruppo di lingua italiana «Errico Malatesta» aderente alla Fai e agli inizi del 1937 il suo nome compare nell’elenco dei componenti del gruppo «Michele Angiolillo».
Rientrato in Svizzera in novembre per incontrare la moglie e rinnovare il permesso di soggiorno, viene dapprima brutalmente arrestato in casa, nonostante le energiche proteste della moglie per violazione di domicilio, e quindi espulso, perché, in quanto combattente, aveva violato la neutralità svizzera.
Torna quindi a combattere in Spagna, ma nel gennaio del 1937 è ricoverato in ospedale a Barcellona per sottoporsi a un’operazione di ulcera. Nel contempo la moglie, espulsa anch’essa dalla Svizzera, ripara in Francia. Dimesso in marzo, rimane al fronte, nonostante la salute malferma, fino al giugno del 1938, a parte una breve parentesi francese nel settembre del 1937, quando si reca in licenza a Marsiglia per ricongiungersi a Carolina.
Profondamente debilitato nel fisico, che non aveva mai voluto risparmiare, muore l’1 giugno 1938, a soli 48 anni, nell’ospedale barcellonese Florida, dove era stato ricoverato per la febbre tifoidea contratta al fronte. Dalle colonne de «Il Risveglio anarchico» del 18 giugno ne viene dato l’annuncio al movimento.
Il suo nome, assieme ai nomi di altri combattenti antifascisti italiani, è inciso su una lapide dedicata «a tutti i figli di Bologna che caddero per la Spagna libera sognando un’Italia nuova». Lapide murata nell’atrio di palazzo Malvezzi, già sede dell’Amministrazione provinciale e oggi sede della Città metropolitana, ed inaugurata in occasione di una manifestazione nazionale di solidarietà con la Resistenza spagnola svoltasi a Bologna nell’aprile del 1964.
NELLE FOTO: L'ANARCHICO IMOLESE ATTILIO BULZAMINI, VOLONTARIO DELLA COLONNA
«FRANCISCO ASCASO», HA PARTECIPATO ALLA BATTAGLIA DEL MONTE PELADO,
BATTESIMO DEL FUOCO PER GLI ANTIFASCISTI ITALIANI