La lotta di Liberazione dal nazifascismo raccontata (e letta) attraverso il diario del partigiano «Sole», Elio Gollini

La lotta di Liberazione dal nazifascismo raccontata (e letta) attraverso il diario del partigiano «Sole», Elio Gollini

Alla Casa del popolo di Castel Guelfo, il 5 aprile 2024, serata a tuttotondo dedicata a Elio Gollini, il partigiano «Sole». Introdotta da Emilio Dalpane, referente Anpi, dal sindaco Claudio Franceschi e dal presidente del circolo Arci di Castel Guelfo, Ruggero Morini, la serata è poi divenuta una lunga chiacchierata con Marco Orazi, storico e responsabile del Cidra, il Centro imolese di documentazione su Resistenza antifascista e Storia contemporanea con sede in via Fratelli Bandiera, nel complesso dell’ex Annunziata.

Istituto fortissimamente voluto da Gollini stesso, costituito partendo dalla sua collezione personale di cimeli raccolti durante il periodo della lotta partigiana nell’imolese tra il 1943 e il 1945, inaugurato nel 1983 in occasione del quarantesimo anniversario della Resistenza e contestualmente all’assegnazione alla città di Imola della Medaglia d’oro al Valore militare per il contributo dato alla lotta per la Liberazione e da lui presieduto fino all’1 febbraio 2010, quando il testimone è passato al professore Roberto Fabio Baroni.

Chiacchierata arricchita da letture, a cura di Giacomo Dalpane, tratte dal libro-diario autografo del partigiano «Sole» e dalla coreografia costituita da una serie di pannelli con su disegnati la storia di Gollini, da protagonista della Resistenza a testimone della Resistenza. Col suggello finale della testimonianza aneddotica di Paolo Gollini, figlio di Elio.

L’Arci di Castel Guelfo è peraltro impegnato da tempo sul tema della «Memoria», attraverso l’organizzazione di visite guidate, mostre e incontri per adulti e ragazzi in collaborazione con Cidra e Comune. Tante sono le iniziative svolte sui temi della deportazione, dell’applicazione delle leggi razziali, della legalità, della pace, dei diritti e pari opportunità.

«Cerchiamo di raccontare storie di persone del nostro territorio, legando così la Memoria alla comunità, alle nostre famiglie – ha tenuto a puntualizzare Ruggero Morini –. Lo abbiamo fatto con Vittoriano Zaccherini parlando di deportazione, con Grazia Fiorentino raccontando l’applicazione delle leggi razziali ad Imola, documentando le storie di Bruno Landi e Frati Dino due giovani militari guelfesi presi e deportati in Germania dopo l’8 settembre. Lo abbiamo fatto accompagnando studenti alla scuola di Pace di Montesole, a Marzabotto, organizzando cene per sostenere la legalità, parlando di diritti e pari opportunità, ascoltando partigiani come Vittorio Gardi, che recentemente ci ha inchiodato all’ascolto con i suoi ricordi resistenti. E lo vogliamo fare questa sera parlando di Elio Gollini a cento anni dalla nascita».

«Certo, 100 anni sono lontani nel tempo. Ma io davanti agli occhi ho un ragazzo di 20 anni – ha aggiunto Morini volgendo lo sguardo ai pannelli della mostra dedicata a “Gollini, il partigiano Sole” – che si impegna nello studio e nel lavoro con passione e sacrificio e che dimostra fin da giovanissimo, ancora prima di schierarsi politicamente, insofferenza e ribellione di fronte alle ingiustizie del regime fascista. E che poi solo in un secondo tempo sceglie di diventare antifascista e partigiano, mettendo così a rischio la propria vita. Un ragazzo che resiste e non si arrende nonostante fosse braccato dai gerarchi imolesi che avevano riservato uno dei quattro lampioni della piazza grande di Imola per il suo collo».

«Leggendo il Diario di mio padre – dirà poi Paolo Gollini, durante la serata – mi hanno colpito le vicende di questi ragazzi, giovani di neanche vent’anni, che si son trovati a dover affrontare una situazione così enorme per loro sapendo ancora poco o nulla della vita. Appena usciti dalle scuole cercarono, attraverso discussioni e letture, di maturare un’opinione, di farsi un’idea di com’erano la società, il mondo in cui vivevano, cos’era giusto e cosa, invece, non lo era e che quindi andava cambiato. Ma di lì a poco si trovarono proiettati in quella tragedia immane che fu la guerra e dovettero divenire adulti in fretta, costruendosi quasi una nuova personalità».

«E la “resistenza” – ha poi aggiunto – era una parola che loro dovevano inventarsi tutti i giorni. E dopo il proclama di Alexander, quando il fronte si fermò, resistere all’occupante nazifascista divenne una tragedia immane, difficile da immaginare per ciò che fu per questi ragazzi che non sapevano più cosa fare, dove andare, dove nascondersi. Loro pensavano che gli alleati venissero avanti, che la liberazione fosse vicina, e invece si trovarono esposti per lunghi mesi alla caccia spietata che davano loro tedeschi e fascisti aiutati dalle spie. Erano braccati senza tregua, senza ripari sicuri. Finché, dirà mio padre dopo aver riabbracciato i suoi genitori in un’Imola ormai liberata: “E’ finita, la tremenda avventura è finita”. Un’avventura che non era stata eroica, non era stata epica. Certo, c’erano stati atti di coraggio, di autentico eroismo. Ma per mio padre era stata soprattutto un’avventura tremenda, fatta di peripezie, dolori e sacrifici, che lui ha vissuto in prima persona e che poi ha portato dentro di sé per tutto il resto della vita».

LA COGNE, FABBRICA DI GUERRA

Diplomato alla Scuola tecnica industriale, Elio Gollini viene assunto nel 1940 alla Cogne, la fabbrica di armi avviata a Imola nel 1938 dalla Società nazionale Cogne (società con direzione a Torino e sede operativa ad Aosta, controllata dall’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale), su richiesta del Governo e dei fascisti locali.

«L’ultimo anno di scuola – racconta Gollini nel suo Diario – termina in piena atmosfera di guerra. Già da oltre 10 mesi essa infuria in Europa e pochi giorni dopo, il 10 giugno, anche l’Italia la dichiara. La Cogne invia a tutti i giovani licenziati dalle Alberghetti la richiesta di presentarsi per essere assunti al lavoro. A dire il vero non mi piace affatto tale prospettiva, che già avevo sperimentato nelle officine della scuola, e avrei preferito continuare gli studi per divenire Perito industriale. Ma dalla discussione avvenuta in famiglia traspare la preoccupazione dei miei genitori per dovermi mandare a studiare fuori città. Così la decisione è che andrò alla Cogne».

Alla Cogne i turni di lavoro sono di 10 ore, compresi il sabato e la domenica. Data la natura militare dello stabilimento, si è sottoposti a una rigida disciplina: gli operai vengono sorvegliati da guardie giurate, che verificavano costantemente il lavoro e spronavano a una sempre maggiore produzione. Inoltre, per le inadempienze sul lavoro, è prevista la camera di sicurezza. Un contesto in cui ogni valore umano viene calpestato, che spinge Elio a compiere un gesto di ribellione che lo porterà a un periodo di reclusione.


Il 9 febbraio 1943 Elio protesta contro l’insopportabile disciplina militare interna. «Ho litigato con Treggia, il capo reparto – racconta ancora Gollini –, per un’osservazione volgare e ingiusta fattami e la minaccia di una multa. L’ho mandato a “dare via il c…”, lui e tutti i caporioni, e di togliersi di mezzo. Poi me ne sono stato vicino alla macchina per tutta la mattina, rifiutandomi di lavorare. Il fatto ha suscitato scalpore e certamente avrà un seguito, anche perché mi sono reso conto che il mio comportamento può essere considerato come atto di incentivazione alla ribellione politica degli altri compagni di lavoro».

IN GALERA, COME UN DELINQUENTE

La protesta gli costa l’arresto in quanto «si rifiutava di ubbidire all’ordine di riprendere il lavoro intimatogli dal caposquadra e offendeva il decoro dello stesso caposquadra».

Racconta Gollini: «Il 28 febbraio, domenica, sono rientrato a casa dalla visita premilitare e subito nonna mi avverte che un carabiniere è venuto a cercarmi e che devo presentarmi al più presto in caserma. Il mio pensiero corre al fatto della Cogne e decido di recarmi dai carabinieri. Arrivato in caserma mi introducono nell’ufficio del maresciallo e questi, dopo pochi preamboli, mi dice che deve tenermi dentro e mi mostra il mandato di cattura. Lo leggo, con una straordinaria calma, e mi rendo conto immediatamente che la mia posizione è grave, che si ha voluto calcare la mano dando soprattutto un’interpretazione politica ai fatti e che, praticamente, sono deferito al Tribunale militare».

Il 5 marzo il giovane Elio Gollini viene trasferito a San Giovanni in Monte, il carcere di Bologna, dove rimane 15 giorni. Scarcerato per la giovane età, ma licenziato dalla Cogne, verrà poi assunto prima allo stabilimento Orsa, sempre a Imola, quale disegnatore meccanico, poi alla Dalmata.

Una ribellione spontanea, la sua, fine a se stessa, che si rivelerà però un primo passo nella decisione di combattere le ingiustizie e le iniquità della società fascista quando se ne presenterà l’occasione. «Oggi, uscito dal carcere, devo dire che mi sento un altro, che vedo la vita sotto un punto di vista più completo, che ha un’altra inquadratura mentale, altri orizzonti, altre aspirazioni».

E’ IL MOMENTO DI AGIRE

Poi l’incontro con l’antifascista Francesco Sangiorgi, che gli dice a bruciapelo: «Tu sei quello che alcuni mesi fa, alla Cogne, ha incrociato le braccia e per questo sei stato in carcere e processato dal tribunale militare. Per noi giovani è giunto il momento di destarci e di agire uniti e organizzati. Vuoi tu dunque entrare a far parte del nostro grande partito, quello comunista?».

Incontro in seguito al quale Elio matura la decisione di aderire al movimento giovanile comunista: «Ormai avevo deciso: per ora sarei divenuto comunista. A guerra finita, con calma, ci avrei ripensato, rivedendo e approfondendo tutto. Ora era tempo di agire e i comunisti lo facevano. Il 31 luglio diedi a Franco Sangiorgi tale risposta». Una militanza attiva che Elio porterà avanti per tutta la vita.

IL RECUPERO DELLE ARMI ABBANDONATE

L’8 settembre del 1943, attraverso i microfoni di Radio Algeri, gli italiani apprendono dal generale Eisenhower che «il governo italiano si è arreso incondizionatamente a queste forze armate». E’ l’annuncio dell’armistizio, firmato cinque giorni prima a Cassibile. Il regio esercito, lasciato senza ordini precisi, si dissolve. E gli avvenimenti precipitano.

«Il giorno 13 settembre – racconta Elio Gollini – faccio la conoscenza di Giovanni Nardi, che mi appare subito un elemento eccezionalmente deciso e spericolato. Lo stesso giorno e il 15 partecipai, assieme a Nardi e altri giovani, al recupero delle armi abbandonate negli accampamenti dell’esercito italiano.

Già i tedeschi avevano preso possesso della città e si erano sistemati alle Acque minerali, al campo sportivo e alla scuola agraria. Furono ore che non dimenticherò più. Strisciando per terra, attraverso siepi e ripe scoscese, trasportammo circa 200 moschetti e numerose bisacce di munizioni e bombe a mano dalle baracche della colonia elioterapica, sul fondo del rio, su fino alla strada dei Colli, da dove, caricati su un automezzo, furono trasferiti altrove.

Ad un certo punto i tedeschi, messi in sospetto dall’andirivieni lungo la strada, iniziarono a sparare. Ma ormai il nostro lavoro era fatto. Alla sera, ritornato in città, mi sentivo orgoglioso di avere reso un servizio, seppur piccolo, alla causa».

I NAZIFASCISTI NON DANNO TREGUA

Dicembre 1944. Il fronte è fermo e i nazifascisti non danno tregua. Anche Elio Gollini è cercato e individuato. «Con il primo del mese, in previsione di un aggravarsi della situazione – racconta “Sole” nel suo Diario – mi sono rinchiuso nella “casa Nicola”, adiacente alla casa dove abito in via Zampieri, separata da questa da un alto muro nel cortile interno, ma in collegamento, attraverso i tetti e superando con tavole posticce un pozzo, col fabbricato di via Cairoli dove hanno il negozio i miei genitori.

Ho fatto bene perché all’arresto di Tampieri e Vannini si sono aggiunti in breve quelli dei fratelli Dall’Osso, di Ricchi, di Vittoriano ed altri, ed anche di Gina Manaresi. Il giorno 3 Milio Fuochi mi ha raggiunto nel mio nascondiglio. (…) In questi giorni è venuto a Imola anche “Meo” (Amedeo Ruggi), già mio amico di infanzia perché abita nella stessa casa di via Cairoli dove hanno il negozio i miei. (…) Il giorno 12 sono uscito in strada per recarmi ad una riunione del Comando piazza che doveva svolgersi a casa di Gigetto Spadoni, di fronte all’ospedale. Ma la riunione era invece stata spostata a casa di “Meo” ed entrambi, io e Gigetto, siamo tornati sui nostri passi attraverso i vicoli delle Case di Dozza. (…)

Purtroppo, come temevo, la mia uscita dal rifugio è stata notata. Fortuna che sono entrato e uscito da via Cairoli e non da via Zampieri. Infatti, il giorno 13, la brigata nera, sul mezzogiorno, ha fatto irruzione contemporaneamente a casa mia e in negozio, mentre tutto l’isolato, da via Verdi a via Cairoli e da via Zampieri a via Milani, era sotto controllo di pattuglie. All’operazione ha partecipato tutto lo stato maggiore fascista: Gentilini, Ravaioli e altri dieci sono entrati nei locali. (…)

Dal nostro rifugio, salendo nel solaio, abbiamo potuto vedere in via Zampieri tutto l’andirivieni dei militi. Avevamo a portata di mano una decina di bombe a mano e le pistole pronte in caso ci fosse stata una irruzione. Inoltre, dal solaio potevamo guadagnare la ritirata attraverso i tetti, mentre attraverso il pozzo potevamo portarci in via Cairoli e attraverso una porticina nel cortile, che dava nel “casamento Rocchi”, uscire anche in via Milani.

Fortunatamente non abbiamo avuto bisogno di muoverci perché, circondati come eravamo, se fossimo usciti saremmo stati presi. Invece, malgrado le minacce, i fascisti hanno dovuto andarsene senza di me. Ma quanto accaduto era la prova evidente che mi davano la caccia, che ero stato bene individuato, che gli accessi ai miei rifugi potevano essere sorvegliati».

GLI ULTIMI ANGOSCIOSI GIORNI

Per non essere catturato dai brigatisti neri, a fine gennaio Elio Gollini ripara a Bologna, presso l’azienda di autotrasporti di suo zio Armando Bartolini, in via Centrotrecento. Questo recapito si rivelerà un luogo privilegiato di osservazione, attraverso il quale poter accedere ai comandi tedeschi per le autorizzazioni ai trasporti e i permessi individuali. E ciò frutterà preziose informazioni e documenti. Ma l’azienda F.lli Bartolini si rivelerà anche un luogo molto esposto.

«Il 3 aprile, come al solito mi sono messo in moto la mattina presto con l’intento di vedere vari compagni. Alle 9 circa, dopo aver avuto contatti con alcuni comandanti di compagnia, sono tornato al recapito Bartolini, sedendomi nella stanza sul retro del deposito merci. Erano lì con me anche la staffetta Laura, giunta poco prima da Imola, e gli altri due miei zii, Gino e Arrigo.

Ad un tratto sento la voce per impiegata che sta al tavolo di ricezione merci, nel magazzino, presso la porta di strada, che dice: “Ehi, voi, chi cercate? Dove andate?”, ripetuta due volte. Poi una voce di un uomo ha risposto: “Cerchiamo Gollini, che è qui!”.

Questo dialogo, svoltosi in pochi secondi, mi ha immediatamente fatto comprendere che a cercarmi in quel modo perentorio, per cognome, non potevano essere che fascisti. Intanto la signorina ha di nuovo urlato: “Vi sbagliate, Gollini non lo conosco. Qui non c’è nessun Gollini, fermatevi”, calcando il tono sul nome nell’evidente intento di richiamare la mia attenzione al di là della porta.

I miei riflessi sono stati pronti e rapidi, in un attimo, balzato da sedere, mi sono lanciato dentro un usciolo che dà in un sottoscala-ripostiglio, buttandomi fra le casse, i cartoni e i sacchi che vi sono. Non era ancora fermo che ho udito aprirsi la porta a vetri fra il magazzino e il soggiorno, percepito i passi di due uomini e la loro secca domande ai presenti: “Dov’è Gollini, Elio?”. Gli rispondono che non sono lì.

Sento allora che procedono nel loro cammino recandosi nella camera da letto delle zie e della signorina e nei gabinetti. Nel mio nascondiglio, immobile, gli attimi mi sembrano secoli. Attendo, con il cuore già rassegnato, di vedermi apparire innanzi due ceffi, di sentire il piombo dalle pallottole penetrare in corpo. E invece li sento uscire dalla camera da letto, attraversare di nuovo il soggiorno rapidi ed uscire per la porta del magazzino senza fermarsi. La fortuna mi ha dunque aiutato ancora una volta».

LA LIBERAZIONE DI IMOLA «SOFFERTA» DA LONTANO

Dopo l’intrusione dei fascisti, «assieme a zio Armando abbiamo fatto il punto della situazione, decidendo che cambiassi nuovamente nascondiglio. La sera sulle cinque, al calar delle prime ombre, con un cappotto lungo fino ai piedi e un cappellaccio in testa mi sono trasferito alla casa dove abita l’altro mio zio, Arrigo, fuori porta Mascarella, in prossimità del cavalcavia ferroviario, dove tutto è rovina e macerie a seguito dei bombardamenti.

I giorni nel mio nuovo nascondiglio scorrono lenti monotoni. Leggo i giornali e qualche libro. Dalla radio aprendo l’inizio dell’offensiva alleata sul nostro fronte. Siamo alla stretta finale. Sto con le orecchie incollate alla radio, a sentir i progressi troppo lenti degli alleati. Poi vengo assalito da un gran male ai denti con ascesso infettato e forte febbre. Mi sembra di impazzire! La sera di venerdì 13 sento alla radio l’appello ai partigiani imolesi ad entrare in azione e la sera del sabato aprendo della liberazione di Imola».

L’AVVENTUROSO RITORNO A IMOLA

Le truppe polacche entrano a Imola il 14 aprile. Bologna, dove è nascosto Elio Gollini, viene liberata il 21 aprile. E il primo pensiero è di tornare nella propria città.

«Per via mi incontro zio Armando, che mi avverte che stanno approntando un camion per Imola, la cui partenza avverrà fra poco, se sarà possibile passare. Infatti c’è un camioncino in attesa, con le bombole di metano appena sufficienti per arrivare a Imola. Verso mezzogiorno partiamo.

Il viaggio è indescrivibile e tutta un’avventura. Percorriamo strade impraticabili, piene di polvere, pietre, di crateri di bombe e granate. Sfioriamo campi minati, attraversiamo i fiumi scendendo dal camion e spingendolo con l’acqua fino alle cosce, sempre confusi fra l’interminabile andirivieni delle colonne motorizzate e corazzate alleate in movimento. Praticamente siamo nella terra di nessuno o ai suoi margini. Infatti la via Emilia è transitabile, ma sembra che ci siano rimaste sacche di resistenza di gruppi tedeschi isolati.

Alle 17, dopo altre 5 ore di viaggio, siamo finalmente al Piratello. La commozione mi serra la gola. Mi alzo in piedi, tutto impolverato e bagnato, con i capelli ritti, la barba di 15 giorni, un braccio sanguinante per una caduta, e fisso le case della mia città, parecchie ridotte a un cumulo di rovine, che si avvicinano a poco a poco.

Ci ferma la gendarmeria polacca. Nel percorrere le vie cittadine incontro alcuni amici e li mando a casa ad informare i miei. Impieghiamo molto tempo per sganciarci dai polacchi. Anzi, ad un certo punto sembra che vogliano metterci dentro. Poi arriva qualcuno dal municipio e tutto è risolto. Vado su e trovo Ezio Serantoni, che mi abbraccia. Poi a casa a stringere forte mio padre, e mia madre, che tanto ha lottato e sofferto in questi ultimi mesi, e Anna che mi accoglie con gioia. Mi getto su una sedia, con la gola arida, le membra spossate, cerco di rilassarmi: E’ finita, dunque. La tremenda avventura è finita!».