Il capitano Renato Marabini primo imolese caduto contro i tedeschi

Il capitano Renato Marabini primo imolese caduto contro i tedeschi

Nella città lombarda di Mantova, poco fuori la stazione ferroviaria, nella piazza intitolata al martire antifascista don Eugenio Leoni, c’è un monumento formato da una colonna in marmo bianco simbolicamente spezzata, con accanto, per terra, la riproduzione bronzea di un elmetto militare dell’esercito italiano. E sul fondo bianco del marmo spiccano le lettere, anch’esse in bronzo, della dedica: «Alla memoria del capitano / Renato Marabini / caduto combattendo contro i / tedeschi per la difesa della / stazione ferroviaria di Mantova / il 9 settembre 1943».

Per l’audacia e la volontà di resistenza all’aggressione nemica dimostrate in quel tragico frangente che gli costerà la vita, il capitano di complemento Renato Marabini nel 1947 sarà poi decorato di Medaglia d’argento al valor militare (concessa alla memoria) con la seguente motivazione:

«Offertosi volontario per assumere il comando della difesa della stazione di Mantova, avuto sentore che truppe tedesche stavano per tentarne l’occupazione, organizzava, con slancio che lo aveva già distinto in precedenti azioni di guerra, il personale disponibile per fronteggiare l’avversario. Attaccato da forze preponderanti specie per mezzi di fuoco, dando fulgido esempio di eroismo e del più cosciente sprezzo del pericolo, impugnato un moschetto si portava in mezzo ai suoi artiglieri, infiammandoli con il suo coraggio ed il suo ardore ed infondendo loro, con la sua audacia, volontà di resistenza. Circondato, e sebbene anche sottoposto al fuoco di artiglieria semovente, respingeva sdegnosamente l’offerta di resa, continuando invece calmo e sereno nella lotta fino a quando colpito a morte, cadeva al suo posto di combattimento. Luminoso esempio di amor di Patria e delle virtù guerriere di nostra gente».

Renato Marabini era nato il 27 aprile 1902 da Gaetano e Argentina Bacchilega, nota famiglia di produttori e commercianti di vino imolesi. Quarto di cinque figli, terminati gli studi ed essersi laureato in Agraria all’università di Bologna, nel 1928 era entrato nella scuola allievi ufficiali di Verona per assolvere al servizio militare (arma Artiglieria da montagna, quindi era un alpino). Congedatosi col grado di sottotenente, era poi ritornato alla vita civile e professionale (nell’azienda del padre) nella città natale.

Con l’entrata in guerra dell’Italia fascista a fianco della Germania hitleriana, nel maggio del 1940 era stato richiamato alle armi con il grado di tenente e destinato al 4° Reggimento artiglieria contraerei di stanza a Mantova. Aveva partecipato alle operazioni belliche sul fronte francese fino al 20 luglio, quindi era rientrato nella città lombarda, ove era stato assegnato al comando del reggimento. Nel settembre di quell’anno si era poi sposato con la fidanzata Clara e nel giugno 1941 era nata la figlia primogenita, Paola.

Nel 1943, promosso capitano, era stato traferito nella Sicilia sud-orientale ad assumere il comando di una batteria del 44° Raggruppamento artiglieria costiero in forza alla 206ª Divisione costiera (comandata dal generale Achille d’Havet), schierata lungo una fascia di circa 130 chilometri, da Siracusa a Punta delle Formiche e a Punta Braccetto.

Ma ormai le sorti della guerra erano volte a favore degli eserciti alleati, che nelle prime ore del 10 luglio erano sbarcati proprio nell’isola. Dopo violentissimi bombardamenti aeronavali i reparti della 206ª divisione subirono in pieno e per primi l’urto della forza d’invasione nemica. La batteria comandata da Marabini, coinvolta nei furiosi combattimenti attorno e dentro il caposaldo di Villa Petrosa, dopo un’ostinata resistenza dovette soccombere alla superiorità dei britannici, che all’alba del 12 luglio avevano circondato i resti della 206ª, annientando le ultime resistenze.

Le perdite in morti e feriti nei reparti del Regio esercito furono ingenti, moltissimi i prigionieri. Salvatosi dalla cattura, Marabini era riuscito a rientrare a Mantova, ove gli venne affidata la batteria comando. Incarico che aveva mantenuto fino al 9 settembre 1943 quando, nel tentativo di difesa della stazione ferroviaria dalle truppe tedesche di occupazione, venne ucciso. Molto probabilmente primo imolese ad essere caduto in quel moto resistenziale che nei 20 mesi successivi diventerà la guerra di liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

Come è noto, infatti, l’8 settembre 1943, cioè il giorno prima che Marabini venisse ucciso dai tedeschi, era stato reso pubblico l’armistizio firmato il precedente 3 settembre nella cittadina siciliana di Cassibile, presso Siracusa, con il quale l’Italia si arrendeva incondizionatamente agli eserciti anglo-statunitensi, disimpegnandosi così dall’alleanza con la Germania nazista.

Ma dopo la firma dell’armistizio, il maresciallo Badoglio, capo del Governo, aveva tergiversato malgrado le insistenze degli alleati affinché rendesse pubblico il passaggio di campo dell’Italia. Perdurando l’incertezza da parte italiana, gli alleati avevano rotto gli indugi e deciso di annunciare autonomamente l’avvenuto armistizio. Così mercoledì 8 settembre, alle ore 17.30 (le 18.30 in Italia), il generale Dwight Eisenhower aveva letto il proclama ai microfoni di Radio Algeri.

Poco più di un’ora dopo, da Roma, Badoglio aveva letto alla radio il seguente annuncio: «Il Governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

La Germania, ormai ex alleata, aveva reagito secondo un piano preparato da tempo, occupando tutti i centri strategici della parte d’Italia ancora militarmente sotto il controllo dalle forze dell’Asse e cercando di catturare quanti più soldati italiani possibile, per poi rinchiudeli nei campi di concentramento e utilizzarli come forza lavoro coatta.

Abbandonato da re e vertici militari (fuggiti precipitosamente dalla capitale) e rimasto senza direttive dallo Stato maggiore, il Regio esercito si dissolse, lasciando campo libero agli occupanti. Ma non dappertutto. In quelle ore di caos vennero compiuti anche straordinari episodi di valore. Come quello accaduto appunto il 9 settembre 1943 a Mantova, dove reparti della divisione corazzata Leibstandarte SS Adolf Hitler si apprestavano a occupare i punti nevralgici impiegando 25 carri armati.

Tra i punti nevralgici, ovviamente, c’erano la stazione ferroviaria e lo scalo merci che, all’arrivo delle truppe tedesche d’occupazione, erano presidiati da una trentina di uomini del 4º Reggimento artiglieria contraerei comandati dal capitano di complemento Renato Marabini.

Ebbene, malgrado fossero armati soltanto di vecchi fucili d’ordinanza modello 91 e di una mitragliatrice Breda 35, i militari italiani rifiutarono di arrendersi e ingaggiarono una coraggiosa quanto disperata resistenza. Nel combattimento, Marabini, colpito da una raffica, morì sulla scalinata della stazione, mentre un sottufficiale e alcuni artiglieri vennero feriti.

Albertino Montresor, che allora aveva 12 anni, così ha raccontato quanto accadde allora («Quel giorno che cambiò la nostra vita», pubblicato sulla Gazzetta di Mantova del 9 settembre 2013): «Io abitavo in via Solferino al numero 31 e potei udire i colpi assordanti del carro armato contro l’ingresso della stazione e contro la casupola situata dove ora termina viale Pitentino, che serviva da posto di ristoro alle mondariso in partenza.

I nostri soldati vi si erano asserragliati mentre altri sparavano dalla sala d’ingresso che porta ai treni. Fu lì che venne ucciso il capitano Renato Marabini nel tentativo, secondo alcuni testimoni, di scagliare una bomba a mano contro i soldati delle SS che si riparavano dietro il panzer.

Finita la battaglia i soldati del presidio furono costretti a fuggire percorrendo i binari morti che erano collocati a ridosso delle mura di cinta delle case che ora fiancheggiano viale Pitentino. Alcuni, scavalcato il muro, piombarono nel cortiletto di casa mia chiedendo di scambiare gli abiti militari con altri civili.

Tutte le famiglie si prodigarono rischiando, consapevolmente o meno, di cadere nella rappresaglia delle SS che poco dopo, maschinenpistole imbracciate, passarono a rastrellare le case».

Ma quello non fu il solo atto di eroismo compiuto da militari italiani a Mantova in quel tragico 9 settembre 1943. Altri soldati caddero nell’adempimento della consegna ricevuta: come Lorenzo Petrini (Medaglia d’argento al valor militare, alla memoria) e Angelo Perego (Medaglia di bronzo al valor militare, alla memoria). Erano di guardia alla caserma «Principe Amedeo» di corso Garibaldi, quando furono uccisi per aver tentato di impedire ai soldati nazisti di entrare all’interno di quella che allora era la sede del Reggimento contraereo. O come il soldato Fernando Zanin, al deposito del Gradaro.

Tragico il bilancio finale: saranno 19 i soldati italiani delle caserme cittadine caduti nell’opporsi al disarmo. Ma, malgrado il loro sacrificio, venerdì 10 settembre 1943 la città era ormai saldamente in mano alle truppe naziste.

Se in quei tragici giorni seguiti all’armistizio risaltarono il senso del dovere e il valore di questi soldati, nondimeno si distinsero i civili. Come l’altruismo della popolana Giuseppina Rippa, uccisa l’11 settembre mentre porgeva pane ai militari italiani affamati incolonnati verso la prigionia. O il sacrificio del sacerdote don Eugenio Leoni avvenuto il 12 settembre. Il prete, risoluto a non fornire informazioni sui soldati cui il giorno prima aveva fornito abiti civili per sottrarli alla cattura, dopo aver subito percosse e sevizie, venne freddato con un colpo di pistola alla nuca. Si può dire che la resistenza mantovana all’occupante tedesco cominciò proprio con questi episodi.

NELLE FOTO: UN GIOVANE RENATO MARABINI IN ALTA UNIFORME
(PROPRIETÀ FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI IMOLA. FONDI FOTOGRAFICI.
ARCHIVIO MARABINI - © RIPRODUZIONE RISERVATA). 
IL CIPPO CHE A MANTOVA (IN PIAZZA DON LEONI, SU VIALE PITENTINO,
VICINO ALLA STAZIONE FERROVIARIA) NE RICORDA IL SACRIFICIO