«I polacchi entravano a Imola e noi non c'eravamo. Non era giusto»

«I polacchi entravano a Imola e noi non c’eravamo. Non era giusto»

Il 24 settembre 1944 il battaglione guidato da Carlo Nicoli, il 3° della 36ª brigata Garibaldi «Alessandro Bianconcini», forte di 250 uomini e diviso in sei compagnie, inizia un movimento d’infiltrazione che lo porta ad occupare monte Battaglia la mattina del 27 settembre. Nella stessa mattina un gruppo di partigiani impegna le unità tedesche che difendono la cima del monte Carnevale.

All’insaputa dei partigiani, dall’altro versante del monte stanno salendo i soldati del 350º reggimento della 88ª divisione fanteria statunitense (i «blue devils»), impegnata nello sfondamento della linea Gotica, seguendo da sud verso nord lo spartiacque tra il Senio e il Santerno. Dopo l’incontro coi partigiani della 36ª, nel pomeriggio del 27 gli statunitensi vengono guidati su monte Battaglia.

Racconta Amedeo Ruggi, comandante di piazza del Cln e futuro sindaco di Imola: «Nel luglio 1944 entrai a far parte della 36ª brigata Garibaldi operante sull’Appennino imolese e fui aggregato al reparto comandato da Carlo Nicoli, che aveva sede in una vecchia casa denominata Pian di Rovigo. Verso metà di settembre la nostra compagnia fu spostata a monte Battaglia con lo scopo di premere su Imola anticipando l’avanzata alleata, che invece proprio a monte Battaglia si fermò. Dopo una battaglia di tre giorni, che si concluse con la conquista del monte da parte del battaglione che Nicoli comandava, fu preso contatto con gli alleati. Qui partigiani e americani combatterono insieme».

E’ l’inizio di una delle battaglie più cruente che verranno combattute sull’Appennino. Durante i combattimenti i partigiani subiranno 15 morti, tra cui gli imolesi Luigi Sabatani, Nerio Poggiali e Maurizio Liverani. Il 28 settembre, poco prima dell’imbrunire, una compagnia statunitense dà il cambio ai partigiani ormai esausti.

Finalmente i partigiani potevano concedersi un meritato riposo e mangiare qualcosa. La sera raggiunsero Valmaggiore, assiepandosi all’interno della chiesa per trascorrervi la notte. Il giorno dopo scesero a Valsalva dove, rifocillati, ripresero le energie necessarie per continuare a combattere. Ma non fu così.

Racconta con amarezza Vico Garbesi, commissario di compagnia della 36ª brigata Garibaldi: «A monte Battaglia i soldati americani avevano chiesto ai partigiani di prendere posto accanto a loro, nelle buche. Stringevano loro la mano, dicevano “It would have been another Cassino”… “Senza di voi questa altra Cassino”. A Valsalva, dove portarono via le armi al 3° battaglione, un maggiore americano col viso lucido e roseo scelse il partigiano più lacero, con la barba più lunga, gli occhi più stanchi, gli diede una sigaretta, gli porse la sua perché accendesse e si fece fotografare così, la faccia sorridente rivolta all’obiettivo. E fotografarono anche il mucchio di armi tedesche che erano state le armi di quei partigiani, le loro scarpe rotte e loro, i partigiani, ammucchiati e tremanti dal freddo. Souvenir of the partisan».

Continua Garbesi: «Poi li caricarono sui camion e li spedirono a Scarperia, dove trovarono molte promesse, molto sapone e otto biscotti al giorno. Dopo una settimana un capitano inglese disse che era “molto dolente”, “very sorry”, ma che dovevano sgombrare. Così li caricarono sui camion e li spedirono a Firenze. A Firenze farina di piselli coi profughi, lodi e sigarette che non si potevano fumare perché a digiuno facevano girare la testa. Passavano davanti alle vetrine luccicanti, coi piedi scalzi: “Poveri ragazzi avete freddo”. E loro sentivano che non erano poveri ragazzi, ma anzi erano estremamente ricchi perché dentro di loro c’erano i monti pieni di verde, la macchina tedesca incendiata, lo zampillo dei bossoli del mitra…».

Poi al centro raccolta di Firenze arrivarono anche i partigiani della 36ª superstiti della battaglia di Purocielo, «quelli del 2° e del 4° battaglione che avevano combattuto per venti giorni sotto l’acqua, sotto le granate tedesche, sotto le granate inglesi e ne mancavano molti. Tutti pensavano che sarebbe finita presto, che gli alleati avrebbero presto occupato Imola e Bologna. Ascoltavano la radio, silenziosi, e gli alleati non si muovevano: il maltempo impedisce le operazioni, sentieri trasformati in torrenti, il nemico ha irrigidito la sua difesa…».

Continua ancora Garbesi: «Era chiaro che gli alleati si sarebbero mossi solo a primavera inoltrata. E invece no. Un giorno sull’Unità comparve la notizia che si costituiva una una grande armata popolare di liberazione: era un esercito di partigiani, era il loro esercito. Da ogni parte d’Italia i giovani correvano nelle file dell’Armata di liberazione. Poi vi fu anche una possibilità più vicina: gli inglesi chiedevano 150 uomini per presidiare Borgo Tossignano».

Racconta Giulio Pallotta, membro del Cln di Fontanelice e poi sindaco dello stesso Comune: «Nel mese di dicembre una unità inglese riusciva fortunosamente a infiltrarsi a Tossignano approfittando della momentanea distrazione nemica durante il cambio della guardia, ma il colpo di mano veniva respinto dalla rabbiosa reazione tedesca e pagato con la cattura di tutti i soldati inglesi. Un gruppo della 36ª brigata Bianconcini guidato da Biagi Orlando, che lavorava per la Military police, si offrì di prendere Tossignano: la possibilità di muoversi su un territorio familiare e di attaccare secondo schemi di guerriglia collaudati in altre occasioni facevano ben sperare nella buona riuscita dell’operazione. Gli inglesi si opposero, ma autorizzarono una dozzina di partigiani a presidiare Borgo Tossignano, dislocando dei posti di blocco al fondo Marcina, al fondo Piana, a La Costa e a Buffa Dosso».

Racconta Neo Cicognani, commissario politico nel 3° battaglione «Carlo» della 36ª brigata Garibaldi: «Allora noi ci offrimmo di occupare Borgo Tossignano e tenerlo come caposaldo avanzato di tutto il fronte alleato, anche se Tossignano, cento metri più in alto, era in mano nemica. Ci recammo al comando alleato di Fontanelice per iniziare le trattative. Noi intendevamo ricostruire alcune compagnie partigiane, chiedemmo quindi che fossero riconosciuti i gradi e che ci venissero consegnate le stesse armi che loro avevano in dotazione. Invece ci dovemmo accontentare di formare una squadra di soli tredici partigiani, armati con armi italiane raccogliticce, per lo più arrugginite. E la notte del 12 gennaio lasciammo Fontanelice diretti a Borgo Tossignano».

Nevicava, la temperatura era gelida e i partigiani non avevano cappotti o mantelli per proteggersi. La tormenta ne sferzava il viso e il freddo penetrava nei loro corpi intirizzendoli. Arrivarono così a Ca’ Cogalina, l’ultimo avamposto inglese: al di là c’era la terra di nessuno, c’era il nemico. «Pernottammo in una casa in fondo al rio. Al mattino un capitano inglese, che parlava abbastanza bene l’italiano, mi diede le ultime istruzioni: dovevamo sgombrare il paese dagli ultimi abitanti e quindi attestarci; tutte le notti, con un mulo, loro ci avrebbero mandato i viveri. Disse pure che se avevamo paura potevamo anche tornare indietro. Non ci conoscevano ancora e pensavano che non facessimo sul serio».

Alle ore 15.00 del 13 gennaio 1945, dopo avere indossato le tute mimetiche bianche, i partigiani entrarono nell’abitato di Borgo Tossignano. «Vi trovammo solo donne, bambini, vecchi e invalidi. L’accoglienza fu delle più commoventi, tanto più che tra noi c’erano giovani del luogo. Ci furono abbracci a non finire; da mesi quei disgraziati non vedevano una faccia amica. I tedeschi li avevano spogliati di tutto e ciò che erano riusciti a salvare si trovava sotto le macerie delle abitazioni distrutte».

Nonostante questo, quella povera gente se ne stava ancorata al paese che li aveva visti nascere poiché tra mura diroccate era rimasto ogni loro ricordo. «All’euforia dei primi abbracci seguirono le lacrime; non volevano capire che a Borgo non potevano restare, che era il punto più avanzato, ove si incrociava il tiro continuo di tutte le armi».

La sera dello stesso 13 gennaio, alle ore 08.00, tutto fu pronto. Iniziava così per la popolazione di Borgo Tossignano un altro triste calvario. «Ci incamminammo attraverso i campi diretti a Ca’ Cogalina. Un partigiano si mise in spalla un vecchio senza una gamba, un altro partigiano sorreggeva un cieco. Tutti portavano qualcosa, quel poco che quella povera gente aveva raccattato per prendere la dolorosa strada dell’esilio».

I tedeschi, messi in allarme dal trambusto, per quanto attutito dalla neve che ricopriva la campagna, non tardarono a farsi sentire, prima con la mitragliatrice, poi col mortaio. «Fortunatamente eravamo già fuori dal paese. Raggiungemmo il caposaldo inglese incolumi e consegnammo i profughi a un capitano. Quando gli dissi che saremmo tornati a Borgo, l’ufficiale rimase sorpreso e per la prima volta mi tese la mano. I soldati ci diedero da bere qualcosa di molto forte e delle sigarette, dopo di che tornammo nell’abitato. Feci piazzare una mitragliatrice efficiente in un punto cruciale della strada, in direzione di Tossignano, e disposi per i primi turni di guardia». Da quel momento, 13 gennaio 1945, Borgo Tossignano era in mano partigiana.

II 18 gennaio il gruppo che presidia Borgo ha il battesimo di fuoco. Il bollettino di guerra del 20 gennaio cita lo scontro avvenuto sul fronte del Santerno durante il quale forze patriottiche hanno respinto il nemico infliggendogli gravi perdite. Ricorda Neo Cicognani, che in quello scontro rimase ferito: «Quel comunicato mi riempì di orgoglio: i partigiani avevano vinto il primo scontro a Borgo e ora gli alleati avrebbero dovuto tenerci in debita considerazione. Infatti, dopo circa venti giorni, cioè quando feci ritorno a Borgo Tossignano, le cose erano cambiate di molto da come le avevo lasciate. Non c’era più un gruppetto sparuto di uomini a presidiare il paese bensì il battaglione “Libero”, formato da partigiani armatissimi, vestiti con divise inglesi, un battaglione autonomo, con propri ufficiali. Operai e contadini che si erano guadagnati i gradi e la fiducia dei loro compagni attraverso la dura lotta sulle montagne nell’estate. Avevamo finalmente ottenuto quanto ci era stato negato prima e il rischio corso dal gruppo, quindi, non era stato vano. Era valso a fare cambiare ai comandi alleati l’opinione che i partigiani fossero un’accozzaglia disordinata di gente senza guida e senza idee. Vennero così il rispetto, la stima e la piena considerazione dell’importanza della nostra partecipazione alla guerra di liberazione».

Per tutto l’inverno il battaglione «Sirio» di «Libero», dal nome di battaglia del proprio comandante, l’imolese Edmondo Golinelli, tenne la difficile posizione e quasi quotidianamente si scontrò con i tedeschi, i quali invano tentarono di rioccupare la posizione. Il 19 marzo 1945 «Libero» Golinelli ebbe, con atto ufficiale del General staff intelligence, il comando del battaglione con il grado di colonnello e un incontro a Castel del Rio con il generale McCreery, comandante dell’8ª Armata inglese. Nelle ultime settimane del conflitto il battaglione passò poi alle dipendenze del gruppo di combattimento «Folgore».

Tossignano, pressoché totalmente distrutto, venne liberato tra il 12 e il 13 aprile 1945 dai paracadutisti del 183° reggimento «Nembo» assieme ai partigiani della 1ª compagnia «Bianconcini-Folgore». Il battaglione «Libero» proseguì l’avanzata, superando di slancio Codrignano, Casalino, Casalfiumanese, Case Sarti-Ponticelli, senza trovare eccessiva resistenza tedesca, fin verso Montebello. Ma, quando ormai si trovava alle porte della città del Santerno, dal comando superiore giunse l’ordine perentorio di fermarsi. E grande fu l’amarezza di quegli uomini.

Racconta ancora Garbesi: «Ci mettemmo a sedere sul margine di un fosso. Le autocolonne ci buttavano la polvere in faccia. Stavamo fermi, guardavamo. Non era giusto che noi non ci fossimo, non esserci era perdere troppo della nostra vita. Che avevamo diritto di esserci, insomma, perché l’avevamo liberata anche noi Imola, per quello che avevamo fatto nell’estate».

I polacchi entravano in Imola, già presidiata dai partigiani sappisti. Era il 14 aprile 1945. «La folla festante andava loro incontro, li abbracciava e forse qualcuno dei nostri pensava che ci fossimo anche noi e ci cercava e non c’eravamo. Così incominciammo ad immaginarla, la liberazione, a raccontaci delle strade, delle case, delle finestre, delle bandiere, del suono delle campane, delle donne che ci buttavano i fiori e che ci abbracciavano, di chi aveva portato in piazza una botte di vino e dava da bere a tutti, delle sbornie che ci sarebbero state, dei nostri amici che, se ancora vivi, si sarebbero senz’altro ubriacati. Così, seduti sul bordo di quel fosso, anche noi mangiammo piadina e ciambella, anche noi bevemmo il vino dalla botte in piazza, sentimmo il suono delle campane e vedemmo anche i nostri genitori».

NELLE FOTO: LA POPOLAZIONE IMOLESE FESTANTE
ACCOGLIE I SOLDATI POLACCHI ENTRATI IN CITTÀ