E venne il giorno della pastasciutta antifascista: 25 luglio 1943

E venne il giorno della pastasciutta antifascista: 25 luglio 1943

Alla caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943, fu grande festa a casa Cervi, come in tutta la nazione. Una gioia spontanea di molti italiani che speravano nella fine della guerra, nella morte della dittatura. La Liberazione verrà soltanto 20 mesi dopo, al prezzo di molte sofferenze e di molti lutti.

Ma quel 25 luglio, alla notizia che il Duce era stato arrestato, c’era solo la voglia di festeggiare. A Gattatico, i Cervi, insieme ad altre famiglie del paese, portarono la pastasciutta in piazza, nei bidoni per il latte. Con un rapido passaparola la cittadinanza si riunì attorno al carro e alla «birocia» che aveva portato la pasta. Tutti in fila per avere un piatto di quei maccheroni conditi a burro e formaggio che, in tempo di guerra e di razionamenti, erano prima di tutto un pasto di lusso.

Racconta papà Cervi nel suo libro «I miei sette figli»: «Il 25 luglio vengono e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera. E’ festa per tutti. La notte canti e balli sull’aia. Facciamo subito un gruppo di contadini e andiamo a Reggio, per la strada tutti si aggiungono e la colonna diventa un popolo. Ognuno sembrava che aveva vinto lui, e questa era la forza. Ma il piacere è breve, è Aldo che ci ricorda la frase di Badoglio: la guerra continua al fianco dei tedeschi. Ma è sempre Aldo che ci dice di far esplodere la contentezza, intanto si vedrà. E propone: papà, offriamo una pastasciutta a tutto il paese. Bene dico io, almeno la mangia. E subito all’organizzazione. Prendiamo il formaggio dalla latteria, in conto del burro che Alcide Cervi si impegna a consegnare gratuitamente per un certo tempo quanto basta. La farina l’avevamo in casa, altri contadini l’hanno pure data, e sembrava che dicesse mangiami, ora che il fascismo e la tristizia erano andati a ramengo. Facciamo vari quintali di pastasciutta, insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case, intorno alle caldaie, c’è un grande assaggiare la cottura, e il bollore suonava come una sinfonia».

Certo, c’era la voglia di uscire dall’incubo del fascismo e della guerra, il desiderio di riprendersi la piazza dopo anni di divieti e di adunate a comando. Ma c’era anche la fame, tanta fame.

«Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo – continua papà Cervi nel suo racconto – ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi che saltavano e baciavano le putele, e dicevo: beati loro, sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del popolo. Io sono vecchio e per me questa è l’ultima domenica. Ma intanto la pastasciutta è cotta, e colmiamo i carri con le pile. Per la strada i contadini salutano, tanti si accodano al carro, è il più bel funerale del fascismo. Un po’ di pastasciutta si perde per la strada per via delle buche, e i ragazzuoli se la incollano sotto il naso e sui capelli. Uno dice: mettiamoli tutti in fila, per la razione. Nando interviene: perché? Se uno passa due volte è segno che ha fame per due. E allora pastasciutta allo sbrago, finché va. Chi in piedi e chi seduto, il pranzo ha riempito la piazza grande, e tutti fanno onore alla pastasciutta celebrativa». E alla fine ne cucinarono più di 380 chili, conditi solo con burro e parmigiano.

Aldo, Antenore, Gelindo, Ferdinando, Ettore, Ovidio e Agostino, i sette figli di Alcide Cervi e Genoeffa Cocconi, furono fucilati il 28 dicembre del 1943 a Reggio Emilia. Il loro funerale fu possibile soltanto il 28 ottobre del 1945, ma fu il funerale di qualcuno che non è mai morto, come recitano molte canzoni a loro dedicate.

Alla fine della guerra, l’allora Presidente della Repubblica consegnò ad Alcide sette medaglie d’argento al valore militare, come onorificenza postuma per i sette fratelli. Nel 1955, con le sue memorie scritte, Alcide si trasformò in una figura pubblica di riferimento per la memoria e la Resistenza partigiana anche grazie a i suoi racconti diffusi attraverso conferenze in Italia e all’estero. Morto all’età di 95 anni, la tomba di Alcide, soprannominato la «vecchia quercia», venne salutata da oltre 200 mila persone durante i funerali tenutisi a Reggio Emilia, ai quali parteciparono anche diverse figure istituzionali e politiche.

NELLE FOTO: LA FAMIGLIA CERVI, COMPOSTA DA BABBO ALCIDE,
MAMMA GENOEFFA COCCONI, I FIGLI GELINDO, ANTENORE, ALDO, FERDINANDO,
AGOSTINO, OVIDIO ED ETTORE E LE FIGLIE DIOMIRA E CATERINA