Domenica 19 maggio 2024, si è spento all’età di 97 anni il partigiano Ermes Penazzi, le cui esequie si sono svolte il 23 maggio. Da sempre iscritto all’Anpi, Ermes era nato il 19 giugno 1926 a Mordano da Roberto e Domenica Franzoni. Licenza elementare, muratore, durante la guerra di Liberazione aveva militato nel Battaglione «Ruscello», il distaccamento imolese della 7ª Brigata Gap Garibaldi «Gianni».
Riconosciuto partigiano dall’1 agosto 1944 al 14 aprile 1945, una sua intervista filmata è entrata far parte del «Memoriale della Resistenza italiana», creato nell’ambito del progetto multimediale «Noi, partigiani». Progetto «di ricerca storica e d’impegno morale» ideato e realizzato dai giornalisti Gad Lerner e Laura Gnocchi, a cui l’Anpi nazionale ha aderito, mettendo a disposizione dei ricercatori il proprio archivio e, soprattutto, la propria anagrafe degli iscritti.
«Io abitavo alla borgata Chiavica – racconta Ermes in quell’intervista –. La prima volta che mi sono avvicinato al movimento partigiano è stata quando mi hanno invitato ad una riunione, che si è svolta in mezzo ad un campo al riparo di una siepe. Eravamo quattro-cinque giovani e c’era questo signore che ci parlò della necessità di lottare contro i nazifascisti. Così sono entrato nei Gap. Eravamo un gruppo di tre persone: io, Leo Pardo e Avres Cavina. Pardo morirà poi a seguito di un mitragliamento aereo: il suo corpo, ormai senza vita, lo trovammo riverso in un fosso. E da quel momento io e Cavina continuammo da soli».
Dopo l’armistizio, il dissolvimento del regio esercito e l’occupazione tedesca, la creazione delle prime formazioni partigiane risulterà tanto più facile quante più armi ed equipaggiamento si avranno a disposizione. Quelle di cui disporranno i partigiani, però, saranno armi per lo più recuperate o strappate al nemico con ardite azioni. Soprattutto gappisti e sappisti si dedicheranno al recupero di armi e munizioni con furti in magazzini e accantonamenti militari, il disarmo di pattuglie di guardialinee, di militi repubblichini e soldati tedeschi, che a loro volta reagiranno inasprendo coprifuoco e vigilanza.
«Il nostro compito principale – conferma Ermes – era di trovare armi per combattere. Armi che talvolta toglievamo agli stessi militari tedeschi. Certo, quelli erano “cattivi”. Ma quando gli puntavi una pistola contro la schiena anche loro ubbidivano. Ne abbiamo compiute molte di queste azioni». E non solo. «Sulla vicina Selice transitavano spesso camion militari che andavano da Massa Lombarda verso Imola. E abbiamo pensato a come fare per fermarne uno. Siamo andati al mulino della Volta, dove c’è il canale, che scorre da un lato della strada e poi passa dall’altro lato. Lì c’erano dei pioppi. Ne tagliammo uno, che nascondemmo sulla riva del fosso. Poi, quando vedemmo arrivare il camion da lontano, lo trascinammo in mezzo alla strada. Così il camion fu costretto a fermarsi. I soldati tedeschi scesero dalla cabina e, mentre loro spostavano l’ostacolo, noi salimmo sul cassone e rubammo una cassa piena di armi, che trascinammo nel fosso. Non si accorsero di nulla».
«Un’altra volta siamo andati fino a Riolo a prelevare delle armi che erano state abbandonate da militari sbandati e che un privato aveva raccolto e nascosto. Per trasportarle, le ho avvolte in un telo e poi le ho legate al cannone della bicicletta, mentre la bicicletta di chi mi accompagnava davanti aveva un cesto e così abbiamo messo lì le munizioni, coprendole con dell’altra roba.
Per tornare siamo passati da San Prospero, dove c’era la cava dei birocciai. Ma quando siamo arrivati là, c’era la fiumana. Per cui non si riusciva a passare il fiume. Così siamo stati costretti a deviare verso Bagnara, dove c’era il ponte, che però era presidiato dai tedeschi: due da una parte e due dall’altra. Non c’era altro modo: noi dovevamo passare di lì. Ma eravamo pieni di armi. E se ci avessero perquisito le avrebbero certamente scoperte. Così abbiamo preparato le pistole, le abbiamo infilate in tasca, e ci siamo avvicinati, pronti al peggio. Invece quei soldati ci hanno chiesto soltanto informazioni su quale era la strada migliore per Massa, lasciandoci passare senza perquisirci».
«Mia madre – conclude Ermes nell’intervista – era antifascista, ma non era contenta di quel che facevo e non voleva che tenessi la rivoltella in casa. Lei era sarta. Così mi aveva cucito un sacchetto, dotato di un lungo cordone, dove, la sera, riponevo l’arma e poi lo facevo scivolare lungo la riva del canale che scorreva vicino alla nostra casa. Mi padre invece era d’accordo con quel che facevamo, ci diceva solo, in dialetto: “Cercate di stare attenti”. Ma noi, allora, eravamo giovani e non avevamo paura di nulla».