Il 14 aprile 2023, giorno del 78° anniversario della Liberazione della città di Imola dall’occupante nazifascista, nella rocca sforzesca si è svolta anche la cerimonia in ricordo delle 278 persone, uomini e donne, che lì, in quel luogo, furono rinchiuse, subendo persecuzioni e torture. Argomento, quello della tortura, affrontato durante la cerimonia dagli studenti della 4G Sia dell’Istituto tecnico «Luigi Paolini» con la re-inaugurazione delle lapidi lì apposte.
Per molti, le celle della rocca, allora adibita a carcere, furono solo una tappa intermedia in percorso di martirio e di morte, perché poi, dopo le botte e le torture loro inflitte dagli aguzzini nazifascisti, furono avviati «a fine atroce» in altri luoghi. Ma per cinque di essi, ricordati da una lapide, la rocca sforzesca fu anche il luogo della loro morte.
E i ragazzi, quelle cinque persone, le hanno volute ricordare: «Luciano aveva 21 anni e morì quando una granata dell’artiglieria alleata colpì il torrione centrale della rocca in cui era tenuto prigioniero. Celso faceva l’ortolano e venne torturato a morte, qui, quando aveva 46 anni. I nazifascisti avevano scoperto che nel suo orto, oltre agli ortaggi, nascondeva armi per i gruppi partigiani. Giosuè era un meccanico e morì in rocca a 46 anni. Guido era un contadino e venne fucilato qui a 35 anni. Alfredo faceva il calzolaio a Castel Guelfo ed aveva 56 anni quando precipitò dalla torre della rocca. Era stato a lungo torturato e le testimonianze sulla sua morte sono controverse: alcuni affermano che venne gettato giù dai suoi torturatori, altri che scelse di suicidarsi per sottrarsi alle torture».
Poi, lungo il percorso tra camminamenti e celle, gli studenti hanno letto i racconti di coloro che lì furono incarcerati e torturati, scampando alla morte, ma non al tormento interiore causato dal ricordo di quella terribile esperienza. «Quelle urla, quei luoghi – racconterà un sopravvissuto – mi hanno condizionato la vita; quei compagni morti atrocemente mai più li dimenticherò. Non so se ora avrei più la forza di passare quello che ho passato, perché mi è rimasta addosso la paura. Mi misero fuori due giorni prima della liberazione, dopo trentaquattro giorni di carcere. Negli ultimi giorni erano molto arrabbiati e intensificarono le torture ai ragazzi. Commisero delle atrocità da non potersi descrivere!».
Racconti di dolore fisico. «Dalle altre celle s’udivano spesso i lamenti dei prigionieri e, soprattutto di sera, dalla sala dove torturavano si udivano le urla dei miei compagni bastonati e seviziati». Ma anche dolore psicologico. Minacce, insulti, intimazioni a parlare «altrimenti la tua famiglia…».
O come l’umiliazione a cui erano sottoposte le donne: «In Rocca mi fecero subire la tortura del bagno. Mi portavano su nel torrione e mi facevano fare il bagno, nuda, in una vasca. Figurarsi, eravamo in febbraio! Faceva tanto freddo e l’acqua era gelata al punto che rompevo il ghiaccio con il sedere. Poi mi lasciavano tutta la notte così, bagnata e nuda, in cella. Solo alla mattina mi ridavano i vestiti».
In ambito internazionale, il divieto di porre in essere la tortura compare sin dal 1949 nella Convenzione di Ginevra a tutela dei prigionieri di guerra. Il trattato internazionale che specificatamente tratta della tortura è la convenzione di New York del 1984, che obbliga gli Stati a inserire nel proprio ordinamento giuridico tale reato. Nell’articolo 3 della Convenzione di New York è scritto che «L’ordine di un superiore o di un’autorità pubblica non può essere invocato in giustificazione della tortura».
Nell’ordinamento italiano il reato di tortura è stato introdotto soltanto nel 2017, dopo un tormentato iter parlamentare. Recentemente alcuni esponenti di Fratelli d’Italia hanno presentato una proposta di legge per abrogare gli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale che introducono tale reato.