Celso Silimbani, l'armiere dei partigiani, orrendamente torturato in rocca, si spense tra le braccia del figlio

Celso Silimbani, l’armiere dei partigiani, orrendamente torturato in rocca, si spense tra le braccia del figlio

Lo scorso 1 marzo 2023, nell’anniversario della morte, abbiamo ricordato Rocco Marabini, partigiano imolese fucilato l’1 marzo 1945 a Bologna e fatto sparire nelle fosse di San Ruffillo. Era stato catturato il precedente 19 dicembre 1944, assieme ad altri compagni di lotta, a seguito della scoperta da parte delle brigate nere di un deposito di armi del movimento partigiano celato nel giardino di Celso Silimbani. Giusto ricordare anche la triste sorte che toccò a quest’ultimo a seguito di quegli eventi.

Celso Silimbani, «Ricò», era nato a Imola il 10 settembre 1898, da Raffaele e Francesca Guerrini. Giardiniere, militante antifascista durante il regime mussoliniano, fu tra i primi organizzatori della Resistenza nell’imolese dopo l’8 settembre 1943. A lui erano stati affidati, tra l’altro, i servizi logistici della Brigata Sap «Imola-Santerno».

Dopo l’armistizio tra l’Italia e gli anglo-statunitensi ed il dissolvimento del regio esercito, Silimbani, con l’aiuto del figlio Antonio e di Pietro Maranini, aveva provveduto a nascondere le armi recuperate seppellendole nel giardino della propria casa, in via Luca Ghini, vicino a porta dei Servi. Deposito che rimase celato fino al dicembre 1944 quando le brigate nere, insospettitesi per la continuata frequentazione di partigiani e noti antifascisti, la sera del 19 dicembre operarono una perquisizione nella sua casa ed in altre abitazioni, scoprendo il nascondiglio.

Arrestato assieme al figlio Antonio e ad Adolfo Boschi, Rocco Marabini e Amilcare Rossi, Silimbani venne tradotto nella sede della brigata nera. Rossi riuscì a fuggire, mentre Celso e gli altri vennero trasferiti nella rocca sforzesca di Imola, allora adibita a carcere mandamentale. In quel luogo Celso subì sevizie e maltrattamenti tali che alcuni giorni dopo, il 26 dicembre, si spense tra le braccia del figlio, su un mucchio di paglia, in preda ad atroci spasmi.

Non ancora paghi, i brigatisti neri trasferirono Antonio Silimbani e gli altri due imolesi nella tristemente nota caserma di via Borgolocchi, a Bologna, dove li sottoposero ancora a supplizi. Per poi trasferirli in seguito nel carcere di San Giovanni in Monte, da dove Rocco Marabini venne prelevato l’1 marzo dalla polizia di sicurezza germanica, portato nella semidistrutta stazione ferroviaria di San Ruffillo, nella periferia di Bologna, e lì assassinato assieme ad altri compagni di sventura. I loro corpi furono fatti sparire in un cratere di bomba.

Riconosciuto partigiano con il grado di sottotenente dall’1 maggio 1944 al 26 dicembre 1944, giorno della sua morte, Celso Silimbani, «Ricò», è stato insignito di Medaglia di bronzo al Valor militare alla memoria con la seguente motivazione: «Fervente patriota, dedicava tutto se stesso alla lotta di liberazione, assumendo anche il rischioso compito della custodia e della distribuzione delle armi ai partigiani. Catturato insieme al figlio, subiva, alla presenza di questi, atroci torture fino al sacrificio supremo, affrontato in nome della libertà della Patria. Imola, maggio 1944 – 26 dicembre 1944».

SACRARIO DI PIAZZA NETTUNO

Celso Silimbani è ricordato nel memoriale dedicato ai partigiani di Bologna e provincia che hanno sacrificato la propria vita durante la guerra di Liberazione dal nazifascismo. Il sacrario, composto da tre grandi cornici contenenti più di duemila formelle in vetroceramica, è collocato sulla parete di palazzo d’Accursio, sede del Comune di Bologna, che affaccia su piazza del Nettuno, sul fronte della biblioteca Salaborsa. Ciascuna delle formelle riporta il nome di un partigiano caduto, il più delle volte accompagnato dalla fotografia.

I tre riquadri, inframezzati dalle finestre del palazzo, sono raccordati dalla seguente scritta in bronzo posta superiormente: «Bologna 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945 / Caduti della Resistenza per la libertà e la giustizia, per l’onore e l’indipendenza della Patria».

SACRARIO DEL PIRATELLO

Le salme dei partigiani imolesi caduti durante la guerra di Liberazione dal nazifascismo sono state poi tumulate nel sacrario «Ai caduti della Resistenza» realizzato nel cimitero di Piratello. Nella foto: la tomba del sacrario ove è tumulata la salma di Celso Silimbani.

MONUMENTO AL PARTIGIANO

L’Anpi di Imola fin dal 1945 decise la realizzazione di un monumento commemorativo della Resistenza, per ricordare i tanti partigiani imolesi morti per la Libertà. Monumento che venne finanziato tramite una sottoscrizione popolare.

Della sua ideazione fu incaricato lo scultore Angelo Biancini, che realizzò una statua in bronzo, con disposte attorno quattro lapidi in marmo riportanti i nomi dei 107 caduti imolesi nella lotta di Liberazione. L’opera, posta in piazzale Leonardo da Vinci, venne inaugurata nel 1946.

Il nome Silimbani Celso compare in una delle quattro lapidi che fanno parte del monumento al Partigiano posto in piazzale Leonardo da Vinci (la rotonda di viale Dante), ad Imola.

LA ROCCA LUOGO DI TORTURA

L’antica rocca sforzesca di Imola, già carcere mandamentale, durante l’occupazione nazifascista fu utilizzata come luogo di reclusione e tortura per antifascisti e partigiani. «Quelle urla, quei luoghi – racconterà un sopravvissuto – mi hanno condizionato la vita; quei compagni morti atrocemente mai più li dimenticherò. Non so se ora avrei più la forza di passare quello che ho passato, perché mi è rimasta addosso la paura. Mi misero fuori due giorni prima della liberazione, dopo trentaquattro giorni di carcere. Negli ultimi giorni erano molto arrabbiati e intensificarono le torture ai ragazzi. Commisero delle atrocità da non potersi descrivere».

Per molti, le celle della rocca furono solo una tappa intermedia in un percorso di martirio e di morte, perché poi, dopo le botte e le torture loro inflitte dagli aguzzini nazifascisti, furono avviati «a fine atroce» in altri luoghi. Ma per cinque di essi, ricordati da una lapide, la rocca sforzesca fu anche il luogo della loro morte.

LAPIDI ROCCA SFORZESCA

Nel cortile interno della rocca sforzesca, subito dopo l’ingresso, una lapide ricorda ai visitatori che lì, in quel luogo, «278 uomini e donne per mani nazifasciste subirono persecuzioni e torture o furono avviati a fine atroce» in altri luoghi. A fianco della prima, c’è poi una seconda lapide con su scritti i nomi dei partigiani che sono morti nella rocca stessa a causa delle botte e delle torture subite dagli aguzzini nazifascisti e la data del loro decesso. Tra questi, c’è anche il nome di Celso Silimbani.