L'antifascista sestese Enea Fantini morì per le botte ma non parlò

L’antifascista sestese Enea Fantini morì per le botte ma non parlò

Nel centro dell’abitato della frazione di Sesto Imolese c’è una lapide – dove ogni anno viene deposta una corona d’alloro – che ricorda due martiri antifascisti sestesi: Attilio Vannini, che «cadde sotto il feroce piombo fascista nel 1925», ed Enea Fantini, che «nella sua tempra ferma e tenace di combattente antifascista morì nel reclusorio di Castelfranco Emilia nel 1931». Storia, quella di Fantini, ricordata anche nel libro «Quei matti di antifascisti», scritto dal professor Renato Sasdelli e dato alle stampe nel 2022 dalla casa editrice Pendragon.

Tra la fine del 1930 e l’inizio del 1931 – racconta Sasdelli – l’Ovra, l’organismo di vigilanza e repressione creato dal regime fascista, disarticola l’organizzazione comunista imolese. Sessantasette militanti finiscono davanti al Tribunale speciale con l’accusa di associazione sovversiva e detenzione di armi. Armi che però non vengono trovate nonostante i metodi squadristici impiegati dalla Questura bolognese, in particolare contro Fantini.

Enea Fantini, da Giacomo e Rosa Berti, era nato il 17 maggio 1901 a Imola. Barbiere, membro dell’organizzazione comunista imolese, aveva avuto l’incarico infatti di conservare una cassa di armi nella frazione di Sesto Imolese. Arrestato con l’accusa di suscitare la guerra civile, di ricostituzione del Partito comunista d’Italia e di propaganda sovversiva, Fantini non aveva però rivelato il nascondiglio delle armi. «Malgrado i più accurati accertamenti non è stato possibile finora addivenire al sequestro di dette armi», conferma un rapporto della Questura.

Fantini viene prosciolto per non luogo a procedere. Ma, pur «gravemente ammalato», resta recluso nel carcere di Castelfranco Emilia a disposizione della Questura. Morirà il 12 aprile 1931, prima dell’inizio dei processi contro i suoi compagni di partito, ucciso proprio da quegli «accurati accertamenti» che la polizia aveva compiuto per fargli dire dove erano nascoste le armi, «nascondiglio che il Fantini Enea non ha voluto indicare». Nella sentenza emessa il 20 maggio 1931 contro 89 antifascisti imolesi comparirà anche il suo nome con l’annotazione «deceduto».

Ai familiari e ai compagni verrà negato il permesso di vedere la salma. Ma i suoi funerali, svoltisi a Imola, si trasformarono in una manifestazione antifascista. «Nel corteo dal Sellustra al cimitero del Piratello numerose persone, fra cui molte donne, si misero il garofano rosso all’occhiello – racconterà poi Vittoria Guadagnini, tra le fondatrici della prima cellula femminile comunista imolese e poi partigiana della 7ª brigata Gap Garibaldi «Gianni» –. Giunti al cimitero, i familiari e ancor più le donne volevano vedere la salma, ma la polizia, allarmata per ciò che stava accadendo, e i fascisti irritati lo impedirono. E questo fu un motivo che diede modo alle donne di far sentire la loro più profonda indignazione».

«Nel primo anniversario della morte di Fantini – racconterà ancora la Guadagnini – io e la Zanarini ci recammo al cimitero al mattino presto, portammo un mazzo di garofani rossi e, al ritorno, affiggemmo sui tronchi degli alberi fiancheggianti la via Emilia dei manifestini riportanti le fotografie di Camilla Ravera, di Mauro Scoccimarro e di Umberto Terracini, con la descrizione delle loro gravi condizioni di salute nel carcere. Quei manifestini rimasero affissi per tutta la giornata, poiché la polizia se ne accorse in ritardo scambiandoli per propaganda sportiva, essendovi il passaggio del Giro d’Italia».

NELLA FOTO: ENEA FANTINI, «TEMPRA FERMA E TENACE
DI COMBATTENTE ANTIFASCISTA MORÌ NEL RECLUSORIO
DI CASTELFRANCO EMILIA NEL 1931»