Livia Venturini e Livio Poletti erano due ragazzi contadini che vivevano nella Bassa imolese fra il fiume Sillaro e il canale Ladello, più vicini a Balìa che a Sesto Imolese. Assieme alle loro numerose famiglie (31 persone i Poletti, 8 i Venturini) conducevano a mezzadria due poderi, entrambi di proprietà della Amministrazione degli ospedali, confinanti e quasi identici: la «Matiossa vecchia» quello dei Poletti, la «Matiossa nuova» quello dei Venturini. Livio era nato nel 1908, Livia nel 1913. Si conoscevano fin da bambini e nel 1930 si fidanzarono: lei aveva 17 anni, lui 22.
Gli anni Trenta nella Bassa imolese – da Sesto a Sasso Morelli, da Osteriola a Mordano – furono anni di forti e coraggiose lotte antifasciste. A livello nazionale il fascismo aveva consolidato il suo potere con la violenza e, attraverso il neocostituito «Tribunale speciale per la difesa della nazione», condannava con pene assai severe chiunque avesse dimostrato in forma tangibile il proprio dissenso verso il regime.
Il Partito comunista, fondato a Livorno nel 1921, dopo un breve periodo di attività legale era stato posto fuori legge ed era entrato in clandestinità, dando vita ad una fitta rete di resistenza antifascista che nella Bassa imolese era particolarmente diffusa. Livio e Livia aderirono entrambi alla rete clandestina antifascista diretta dal Partito comunista.
Nella notte del 7 novembre 1930 i giovani della rete vollero dimostrare ai fascisti la loro presenza celebrando il 13° anniversario della rivoluzione russa: a Sesto issarono una bandiera rossa sul balcone della Casa del Fascio e a Osteriola un’altra bandiera rossa su di un albero all’incrocio tra la Selice e la San Vitale. Livio prese parte a quest’ultima azione.
Nel mese successivo si scatenò la reazione dei fascisti. In totale furono arrestate 56 persone: fra di esse quattro della famiglia Poletti (Livio, due suoi fratelli e un cugino) e due della famiglia Venturini (i fratelli di Livia, Amilcare e Gino). Verso la metà del 1931 vennero quasi tutti condannati dal Tribunale speciale a pene variabili con l’accusa di ricostituzione del Partito comunista.
A Livio furono inflitti tre anni e tre mesi di carcere, da scontare nel carcere piemontese di Saluzzo, mentre uno dei fratelli di Livia, Amilcare, fu condannato a cinque anni di confino, da scontare in uno sperduto paesino della Calabria. Scontarono però solo una parte della pena loro inflitta perché nel 1932 beneficiarono di un’amnistia concessa dal regime in occasione del decennale della marcia su Roma.
Uscirono perciò dal carcere e lasciarono il confino, ma non poterono festeggiare: la vendetta non era finita, perché nel frattempo – subito dopo il loro arresto – l’Amministrazione degli ospedali, evidentemente pressata dal regime, aveva avviato il cosiddetto «escomio» (disdetta di locazione) a entrambe le famiglie con una lettera – come ricorda Amilcare Venturini nelle sue memorie – nella quale si diceva che «la Congregazione di Carità non è disposta a tollerare che sulle terre ereditate da nobili concittadini vi permangano famiglie nel cui ambito abbiano potuto prosperare cospiratori e nemici del Supremo Ordine Costituito. Ordina pertanto alle famiglie in oggetto di lasciare libero il podere e l’annessa abitazione entro e non oltre l’8 novembre 1931».
I Poletti furono costretti a cercare un nuovo podere e lo trovarono a Castel Bolognese, mentre i Venturini cessarono di essere contadini trasformandosi in braccianti agricoli e andarono a vivere a Mordano. Qui, nell’aprile del 1933, Livia e Livio si sposarono e qui, sempre in quell’anno, nacque la loro figlia Vanda. Livio lavorò prima come bracciante, poi entrò nel Gruppo facchini di Imola, mentre Livia, in mancanza d’altro ma anche perché doveva accudire la figlia, si occupò come domestica a ore.
Nel 1938 lasciarono Sasso Morelli – ove erano andati a vivere con la moglie di Amilcare, il quale era stato condannato a cinque anni di confino nell’isola di Ventotene «per essersi abbandonato ad una sfacciata allegria quando seppe della vittoria del Fronte popolare in Francia» – e si trasferirono ad Imola in un piccolo appartamento davanti alla cosiddetta piazza dei Servi.
Dopo l’8 settembre 1943 entrambi entrarono a far parte della Resistenza: Livia quale staffetta di collegamento, Livio nei Gap in città. Fu lui, il 6 novembre 1943, a giustiziare in via Luigi Sassi il console della milizia imolese Barani. Fu sospettato e arrestato, ma nessuna prova emerse a suo carico. Prudentemente, però, dovette darsi alla latitanza e si nascose sulle colline di Castel Bolognese, in un podere di contadini amici.
In quel periodo accadde il tragico episodio dell’uccisione di Livia in piazza a Imola, il 29 aprile 1944, durante una manifestazione di donne contro il caro-vita e la mancanza di generi alimentari. Episodio durante il quale fu uccisa anche Maria Zanotti. Livia fu colpita alla schiena da una pallottola che le spezzò la spina dorsale. Ospitata nella casa dei parenti, a Bubano, fu assistita dalla mamma e dalla sorella. La straziante agonia durò oltre un mese.
E c’era anche Vanda, che allora aveva 11 anni. «In quei tristissimi quaranta giorni di agonia – raccontò poi – mio padre veniva spesso a trovarci, sempre di notte, per sfuggire all’agguato dei fascisti che erano di sorveglianza nei dintorni. Io lo sapevo e senza dire niente a nessuno stavo spesso anche più di un’ora ad aspettarlo dopo il tramonto, seduta sul ponte dove la strada proveniente da Mordano incontra quella di Bubano dove allora stavo con mamma ferita. Erano le uniche volte in cui, ormai, potevo vederlo: i fascisti lo cercavano e dove si nascondesse non lo seppi mai. Era giugno: il 13 di quel mese mamma morì mentre io mi trovavo a Castel Bolognese ospite dei nonni paterni».
Dopo la morte della moglie, Livio chiese di lasciare il nascondiglio di Castel Bolognese per potersi unire in montagna ai combattenti della 36ª Brigata Garibaldi. «Dopo quel giorno di giugno – racconta ancora Vanda – rividi mio padre pochissime volte in brevi incontri sempre in luoghi diversi. Ero certamente felice di stare ogni volta con lui, ma mi sentivo intimorita da quei suoi occhi chiari che erano diventati freddi come il ghiaccio. Poi, una mattina partì per la Brigata. Lo accompagnai per un tratto di strada come una formica che segue un leone».
Livio cadde l’11 ottobre 1944 nella sfortunata battaglia di Purocielo, nelle colline fra le valli del Senio e del Lamone, quando due battaglioni della 36ª Brigata Garibaldi tentarono di sfondare il fronte alla spalle dei tedeschi sui crinali prospicienti la valle del Lamone per ricongiungersi con le truppe alleate. «Il tentativo – come ricorda Gabriele Albonetti – sostanzialmente fallì e la battaglia di Purocielo si trasformò in una difficile manovra di ripiegamento tesa a disincagliare le forze partigiane dalla stretta delle truppe tedesche decise ad annientare la guerriglia. L’attraversamento del fronte riuscì ai partigiani solo alcuni giorni più tardi e in un altro luogo grazie a marce notturne forzate non prive di drammatici episodi di sfortunato eroismo».
Vanda così conclude il suo racconto: «Quando, nell’aprile del 1945, al termine della guerra i suoi compagni della 36ª Brigata Garibaldi ritornarono, io aspettavo anche lui. Solo allora mi dissero la verità: mio padre era morto falciato da una raffica nazista. Il non aver visto morire i miei genitori, il non averli visti giacere in una bara penso sia il motivo che mi ha impedito di morire. Perché per me essi sono ancora in giro da qualche parte nel mondo a inviarmi i loro messaggi di speranza e di lotta».
(Il presente racconto è tratto dal libro «Storie dimenticate da non dimenticare», edito da Bacchilega Editore e che raccoglie scritti di Benito Benati pubblicati sul settimanale imolese «sabato sera». Molte delle notizie che hanno consentito all’autore di elaborare il testo sono state tratte dal volume «La rossa primavera» di Graziano «Mirco» Zappi e dal «Memoriale di un antifascista» di Amilcare Venturini, fratello di Livia, custodito presso il Cidra e riprodotto nel libro di Quinto Casadio «Memorie e persecuzioni». Mentre la citazione di Gabriele Albonetti relativa alla battaglia di Purocielo è tratta dal libro omonimo di Ferruccio Montevecchi. Le dichiarazioni di Vanda Poletti sono state raccolte, a suo tempo, dalla giornalista Roberta Gonni).