7 novembre 1944, a Bologna la più grande battaglia combattuta dai partigiani in una città

7 novembre 1944, a Bologna la più grande battaglia combattuta dai partigiani in una città

E’ l’autunno del 1944. Le armate alleate, sbarcate in Sicilia più di un anno prima, il 9 luglio 1943, hanno faticosamente risalito la penisola italiana ed ora si trovano a fronteggiare le truppe tedesche attestate sull’Appennino tosco-emiliano, lungo la linea Gotica, la poderosa linea difensiva voluta dal feldmaresciallo Albert Kesselring. Le forze della Resistenza presenti nei centri urbani dei territori occupati dai nazifascisti, desiderose di fermare le feroci rappresaglie nazifasciste sui civili ed incoraggiate dai recenti successi conseguiti dall’esercito angloamericano, che sul finire dell’estate era riuscito a forzare in più punti le posizioni fortificate nemiche, si erano preparate a vere e proprie azioni di insurrezione armata in appoggio dell’imminente sfondamento del fronte.

La provincia di Bologna, in particolare, è già stata parzialmente riconquistata (l’avanzata degli americani sulla direttrice Firenze-Bologna era giunta a fine ottobre nei pressi di Pianoro, poco a sud del capoluogo emiliano, mentre gli inglesi procedevano verso Rimini) e la città stessa sembra ormai prossima alla liberazione. In vista di un’azione imponente nel centro cittadino i reparti della 7ª Gap, rafforzati da partigiani della 62ª brigata Garibaldi «Camicie rosse» e della 66ª brigata Garibaldi «Piero Jacchia» scesi dall’Appennino, hanno concentrato forze ingenti in due basi operative nascoste tra le macerie del quartiere intorno a porta Lame, uno dei più colpiti dai bombardamenti alleati, e dove ormai non abita più nessuno: la base principale, forte di 230 combattenti guidati da Giovanni Martini («Paolo») e con Ferruccio Magnani («Giacomo») commissario politico, è nascosta nei sotterranei dell’ospedale Maggiore ridotto a rudere dalle bombe; e una seconda base, con 75 effettivi guidati da Bruno Gualandi («Aldo») e con Lino Michelini («William») commissario politico, acquartierati in alcuni stabili del macello comunale che danno sull’omonimo vicolo, in prossimità dell’area dell’ex porto fluviale della città.

I partigiani sono armati di tutto punto e sono pronti ad entrare in azione. Qualche tempo prima, infatti, avevano assaltato un treno militare e si erano procurati munizioni di ogni tipo. Nei sotterranei dell’ospedale hanno nascosto anche alcuni mezzi di trasporto che si sono procurati fortunosamente. Attendono solo l’ordine di attaccare, quando gli eventi all’improvviso precipitano.

Durante un rastrellamento i tedeschi scoprono casualmente la base di via del Macello. «In quella base eravamo in settantacinque – racconterà Michelini dopo la fine della guerra -: una parte della 7ª Gap e alcuni partigiani scesi dalle montagne, cinque donne staffette, un reparto di medicina. Nelle prime ore del mattino c’era un rastrellamento in corso. Un paio di soldati tedeschi, attraversando una passerella posta sul canale Cavaticcio, avvistarono noi partigiani nascosti fra le rovine di una palazzina danneggiata dai bombardamenti e dettero l’allarme. Vistisi ormai scoperti, i miei compagni aprirono il fuoco uccidendo i due militari. Quel momento può essere considerato l’inizio della battaglia di porta Lame». Sono le ore 6.15 del 7 novembre.

Le forze tedesche e fasciste mettono in atto un piano di attacco coordinato, spostando e restringendo il perimetro d’azione e intensificando la pressione sui partigiani con l’uso di armi a tiro lungo. I partigiani, asserragliati in due stabili, rispondono con un intenso fuoco di armi leggere.

Dopo i primi scambi di colpi le partigiane Rina Pezzoli («Nadia») e Diana Sabbi escono in perlustrazione per raccogliere informazioni, ma vengono fermate dagli aggressori (rinchiuse nel seminario di via dei Mille, riusciranno poi a fuggire). I fascisti tentano più volte di occupare gli stabili con assalti tanto furiosi quanto infruttuosi. Il primo partigiano a cadere è Nello Casali («Romagnino»), mentre i feriti vengono curati dal medico imolese Luigi Lincei («Sganapino»).

Verso le 10 i tedeschi mettono in postazione in via Carlo Alberto (oggi via don Minzoni) un cannone da 88 millimetri e una mitragliera pesante. Le cannonate provocano il crollo di uno dei due stabili, per cui i partigiani sono costretti ad abbandonare quel riparo ed a rifugiarsi nell’altro edificio, che, essendo seminterrato, risulta meno esposto ai colpi. Ma, durante la sortita, quattro partigiani vengono colpiti. Alle 15.30 giunge dal fronte poco lontano un carro armato Tigre, che comincia a sparare sul secondo stabile. A questo punto Michelini, che aveva assunto il comando del gruppo essendo Gualandi rimasto gravemente ferito, decide di abbandonare la base.

Vengono formati tre gruppi: il primo e il terzo composto da partigiani armati, il secondo da partigiani che sorreggono i feriti. Dopo avere gettato fumogeni, i fuggitivi scendono nel canale Cavaticcio (oggi interamente coperto) e cominciano a risalire la corrente verso via Roma (oggi via Marconi). Sulle due rive, molto alte, si trovavano i militi repubblichini che però, grazie al denso fumo e alla semioscurità, non li vedono.

Dopo avere percorso via Marghera (oggi via Fratelli Rosselli), una volta giunti in piazza Umberto I (oggi piazza dei Martiri) i partigiani eliminano un posto di blocco fascista e quindi si dividono in quattro gruppi. I feriti vengono portati in alcune abitazioni private e quindi nell’infermeria partigiana di via Duca d’Aosta 77 (oggi via Andrea Costa). Gli altri, invece, tornano alle vecchie basi di partenza. Quando, dopo più di dieci ore di combattimento le truppe tedesche entrano nei locali di via del Macello, li trovano vuoti.

Contemporaneamente ha inizio la seconda fase della battaglia, con l’intervento delle formazioni gappiste nascoste tra le rovine dell’ospedale Maggiore. «Tutti i partigiani erano in posizione di combattimento, ognuno nel posto assegnatogli – ha poi raccontato Renato Romagnoli («Italiano») -. Man mano che passava il tempo gli uomini si innervosivano sempre di più. Ci chiedevamo cosa aspettasse il comando a farci sapere le sue intenzioni, a darci le indicazioni e l’ordine di intervenire a fianco dei nostri compagni accerchiati. Ma l’ordine tardava e noi eravamo costretti a starcene immobili a guardare. Finalmente l’ordine arrivò. Il comando di brigata, con l’appoggio del Cumer, nel corso della giornata aveva elaborato un piano per dare battaglia: si attaccava alle sei e mezza del pomeriggio, allo scendere delle prime ombre della sera».

I partigiani escono allo scoperto e attaccano da dietro lo schieramento nazifascista per consentire ai compagni, che ritengono ancora accerchiati nell’ex macello, di mettersi in salvo. Il grosso delle forze nemiche, che si era concentrato attorno al cassero di porta Lame, viene circondato e preso di mira da un intenso fuoco incrociato. La sorpresa è totale e la rapidità dell’attacco non consente una reazione ordinata da parte delle truppe nazifasciste, che si sbandano disperdendosi. Costatato che i compagni sono già fuggiti, i partigiani abbandonano la zona e rientrano nelle vecchie basi, occupate prima di essere acquartierati nell’ex ospedale.

Quella di porta Lame e stata una delle più grandi battaglie combattute nel cuore di una città dai partigiani in Europa. I partigiani bolognesi ebbero 12 morti e 15 feriti. I tedeschi avrebbero avuto 15 morti e una ventina di feriti. I fascisti, invece, ammisero 19 morti, mentre non si conosce il numero dei loro feriti. I giornali clandestini della Resistenza – per motivi propagandistici – scrissero che i nazifascisti uccisi ammontavano ad oltre 200.

Pochi giorni dopo, il 13 novembre 1944, con un proclama radiofonico, il generale britannico Harold Alexander farà sapere che l’offensiva sulla linea Gotica poteva considerarsi momentaneamente esaurita e, pertanto, inviterà i partigiani a smobilitare. Pausa invernale che però permetterà ai nazifascisti di concentrare la propria azione repressiva nei confronti dei partigiani e delle popolazioni prossime alla linea del fronte.

L’avanzata attraverso la pianura Padana subiva quindi una battuta d’arresto che sarebbe durata fino alla primavera del 1945, quando, sotto la spinta della nuova offensiva, il contingente alleato avrebbe sfondato in maniera definitiva la linea Gotica portando alla battaglia di Bologna e alla rapida liberazione di tutto il nord Italia.

Oggi, a ricordo della battaglia del 7 novembre 1944, presso porta Lame sono state collocate le statue (opera dell’artista imolese Luciano Minguzzi) raffiguranti due giovani partigiani, un uomo e una donna, forgiate con il bronzo ricavato dalla fusione della statua equestre di Benito Mussolini che si trovava all’interno dell’attuale stadio Renato Dall’Ara, la quale, a sua volta, era stata forgiata attraverso la fusione di tre cannoni sottratti agli austriaci durante la battaglia dell’8 agosto 1848 svoltasi a porta Galliera.

Oltre ad esse una lapide commemorativa porta incisi i nomi dei caduti dello schieramento partigiano: Oddone Baiesi di Anzola dell’Emilia, Oliano Bosi di Anzola dell’Emilia, Nello Casali di Cesena («Romagnino»), Enzo Cesari di Bologna («Tito»), Ercole Dalla Valle di Medicina («Bridge»), Guido Guernelli di Bologna («Giulio»), il pilota sudafricano Samuel Schneider (alias John Klemlen), Ettore Magli di Anzola dell’Emilia, Rodolfo Mori di Bologna («Rudi»), Alfonso Ricchi di Bologna («Sergio»), Alfonso Tosarelli di Bologna («Zio Scalabrino») e Antonio Zucchi di San Lazzaro («Bufalo»).

La vera storia di Samuel Schneider, aviatore sudafricano eroe a porta Lame

NELLE FOTO: LE OPERE DEI PITTORI LORENZO CEREGATO E TULLIO RAVENDA
DEDICATE ALLA BATTAGLIA DI PORTA LAME E IMMAGINI DELLA BATTAGLIA
COSI' COME SI SVOLSE, VISTA DALLA PARTE DEI NAZIFASCISTI