27 gennaio 1944, imolesi fucilati al poligono di tiro

27 gennaio 1944, imolesi fucilati al poligono di tiro

Il 26 gennaio 1944, a Bologna, un commando di gappisti aveva giustiziato con alcuni colpi di pistola Eugenio Facchini, segretario federale del Partito fascista repubblicano. Uccisione che rientrava nella strategia di portare nelle città la resistenza armata al nuovo fascismo repubblichino, alleato dei tedeschi.

Il 3 settembre 1943, infatti, l’Italia aveva firmato in gran segreto l’armistizio di Cassibile, col quale si arrendeva agli alleati, rompendo l’alleanza con la Germania nazista di Adolf Hitler. Armistizio reso noto al popolo italiano soltanto il successivo 8 settembre.

Mussolini, liberato dalla prigionia dai paracadutisti tedeschi, il 23 settembre 1943 aveva costituito un regime fantoccio a Salò. Ed i suoi gerarchi erano diventati subito obiettivo di attacchi portati dai partigiani in risposta alla prepotenza ed al terrore nazifascista: il 29 ottobre era stato ucciso il capo della milizia di Torino, Domenico Giardina; il 3 novembre era stata la volta del seniore della milizia di Imola, Fernando Barani; il 13 era fallito l’attentato contro il commissario della federazione fascista di Reggio Emilia, Giuseppe Scolari; il 14 novembre a Ferrara era stato colpito il federale fascista Iginio Ghisellini; il 18 dicembre c’era poi stata l’uccisione del federale di Milano, Aldo Resega. Infine l’uccisione di Facchini.

L’uccisione del federale di Bologna suscitò grande clamore, e non solo in città. Facchini, infatti, era stato nominato nell’ottobre 1943 da Alessandro Pavolini, il fondatore delle famigerate Brigate nere, con l’approvazione dello stesso Mussolini. I fascisti decisero quindi di dare una punizione esemplare. Così nella notte si riunì un Tribunale speciale per decidere la sorte degli antifascisti scelti tra quelli che in quel momento giacevano nelle carceri di Bologna e di Imola, seppur estranei al fatto.

A presiedere l’assise fu chiamato il generale Ivan Doro, ex ardito e squadrista implacabile, soprannominato «Ivan il Terribile», amico di Arpinati «sul nascere del fascismo» e già comandante della Legione di Bologna della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.

Il processo fu celebrato in assenza in aula degli stessi imputati e dei loro avvocati. Del resto l’esito del processo-farsa era già bell’e che deciso. La corte applicò infatti le disposizioni dettate il precedente 3 novembre da Pavolini stesso, che ordinavano di colpire, oltre agli esecutori, anche i supposti «mandanti morali» degli attentati, in quanto considerati «responsabili dell’avvelenamento delle anime e delle connivenze con l’invasore».

Dal carcere della rocca di Imola erano stati prelevati i fratelli Alfredo e Romeo Bartolini, Sante Contoli, il minorenne Antonio Ronchi, Alessandro Bianconcini, Francesco D’Agostino. A cui si erano aggiunti i reclusi bolognesi Silvio Bonfigli, Cesare Budini, Ezio Cesarini, Luigi Missoni e Zosimo Marinelli. Undici in tutto.

La sentenza fu di dieci condanne a morte mediante fucilazione alla schiena, dato che la posizione del Ronchi era stata stralciata per via della sua giovane età. La condanna per il tenente Luigi Missoni, mutilato di guerra e decorato di Medaglia d’oro al valor militare, e per l’anziano birocciaio Sante Contoli, arrestato a casaccio e che nulla aveva a che vedere con la Resistenza, venne poi commutata in una lunga pena detentiva (30 anni), col primo che perirà il successivo 27 dicembre nel bombardamento del carcere di Castelfranco Emilia ove era recluso, mentre il secondo morirà di stenti nel lager di Mauthausen.

Questa la motivazione ufficiale delle condanne a morte: «Per avere dal 25 luglio 1943 in poi, in territorio del Comando militare regionale, con scritti e con parole, con particolari atteggiamenti consapevoli e volontarie omissioni e con atti idonei ad eccitare gli animi, alimentato in conseguenza l’atmosfera del disordine e della rivolta e determinato gli autori materiali dell’omicidio a compiere il delitto allo scopo di sopprimere nella persona del Caduto (il federale Facchini) il difensore della causa che si combatte per l’indipendenza e l’unità della patria».

I restanti otto condannati furono trascinati la sera stessa del 27 gennaio al poligono di tiro cittadino e lì fucilati dopo essere stati percossi fino all’ultimo. Le vittime di quell’eccidio furono: i fratelli Bartolini, Alfredo di 28 anni, operaio della Cogne, e Romeo di 43 anni, anch’egli operaio della Cogne, arrestati sulla base di voci infondate e solo il primo con addentellati politici; l’antifascista Alessandro Bianconcini, 35 anni, insegnante di musica; Silvio Bonfigli, 58 anni, impiegato, ex console della milizia; Cesare Budini, 46 anni, geometra; Ezio Cesarini, 41 anni, giornalista del «Carlino»; Francesco D’Agostino, 62 anni, primario chirurgo e direttore dell’ospedale civile di Imola; Zosimo Marinelli, 50 anni, operaio.

I nomi ed i volti delle vittime dell’eccidio di via Agucchi sono oggi raccolti nel sacrario di piazza Nettuno insieme a quelli di tutti gli altri caduti nella Resistenza e nel monumento-ossario della Certosa di Bologna, a perenne memoria del loro sacrificio.

In onore di Alessandro Bianconcini, già comandante della 7ª brigata Gap, quella che era nata come 4ª brigata d’assalto Garibaldi, operante sull’Appennino faentino-imolese, nell’estate del 1944 assumerà il suo nome divenendo la 36ª brigata Garibaldi «Alessandro Bianconcini», formazione che scriverà pagine gloriose indimenticabili nella lotta di Liberazione nazionale. L’esempio e la lezione del «Professore» erano stati raccolti e portati avanti dai partigiani anche in suo nome e sono ancora vivi nella nostra memoria.

Tra il 1943 e il 1945 nel tiro a segno di via Agucchi si consumeranno almeno 13 stragi collettive di partigiani, antifascisti ed ebrei e molte esecuzioni individuali.

NELLA FOTO: IL MONUMENTO CHE RICORDA I FUCILATI
NEL POLIGONO DI TIRO DI VIA AGUCCHI TRA IL 1943 E IL 1945